miércoles, 12 de noviembre de 2008

LEZIONE N. 4/ TEOLOGIA DELLA CITTÀ...


(12.11.08) Aula XXVII 3ª Ora: 10,20-11,05 4ª Ora: 11,10-11,55

MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione



LA REPUBBLICA DI PLATONE (πολιτεία)

Bibliografia: PLATONE, La Repubblica, Laterza, Bari 2008 [a cura di Vegetti Mario]. Sul significato del concetto utopia: FROSINI Giordano, Babele o Gerusalemme?, 47-51. Sulla funzione utopica: BLOCH Ernst, El principio esperanza, vol. 1, Trotta, Madrid 2004, 181-236.

Quando Platone, verso il 390 a.C. scrisse quest'opera sotto forma di dialogo, aveva circa 40 anni.

Si può dire che con questa opera dà inizio alla letteratura upotica, nella quale troviamo una serie di proposte letterarie nelle quali si plasmano le diverse costruzioni ideali della città. Come ha detto J. Comblin, «la città è stata sempre l’argomento prediletto delle “utopie”», il punto è stato sempre quello di’immaginare una città perfetta [cfr. J. Comblin, Teologia della città, 24].

La città utopica

È il nome che Tommaso Moro dà alla sua opera che studieremo più avanti, il cui significato è non luogo (ou tópos).

Secondo Jung l’utopia è un archetipo generico dell’inconscio collettivo. Ma la gente comune lo adopera ad ogni forma di realtà che sembra non potersi realizzare.

Nella sua accezione positiva, dunque, utopia vuole significare qualcosa di lontano e di irraggiungibile almeno nella sua pienezza, verso cui, però, possiamo e dobbiamo sempre camminare in una progressiva e instancabile marcia di avvicinamento.

Il principio utopico è presente nell’animo delle persone. Alla base di ogni costruzione utopica noi possiamo trovare il principio della speranza. Le utopie in questo senso possono fare che la storia si muova. Esse sono orientate verso un futuro nuovo.

Paolo VI, nella sua lettera apostolica Octogesima adveniens (anno1971, 80º anniversario dell’enciclica Rerum Novarum), parla di una Rinascita delle utopie:

n. 37:
Meglio si comprendono oggi i lati deboli delle ideologie esaminando i sistemi concreti nei quali esse cercano di realizzarsi. Socialismo burocratico, capitalismo tecnocratico, democrazia autoritaria manifestano la difficoltà di risolvere il grande problema umano della convivenza nella giustizia e nella uguaglianza. In realtà, come potrebbero essi sfuggire al materialismo, all'egoismo o alla violenza che fatalmente li accompagnano? Da dove viene la contestazione che nasce un po' ovunque, segno di un disagio profondo, mentre si assiste alla rinascita di «utopie» che pretendono di risolvere il problema politico delle società moderne con più efficacia delle ideologie? Sarebbe pericoloso non ammetterlo: l'appello all'utopia è spesso un comodo pretesto per chi vuole eludere i compiti concreti e rifugiarsi in un mondo immaginario. Vivere in un futuro ipotetico rappresenta un facile alibi per sottrarsi a responsabilità immediate. Bisogna però riconoscere che questa forma di critica della società esistente stimola spesso l'immaginazione prospettica, ad un tempo per percepire nel presente le possibilità ignorate che vi si trovano iscritte e per orientare gli uomini verso un futuro nuovo; tramite la fiducia che dà alle forze inventive dello spirito e del cuore umano essa sostiene la dinamica sociale; e se non si nega a nessuna apertura, può anche incontrarsi con il richiamo cristiano.

Tutti in qualche modo abbiamo bisogno di un’utopia per portare avanti la nostra vita. Le utopie nascono dalla insoddisfazione del presente, dalla non-rassegnazione dello spirito umano, chiamato sempre a trascendersi.

L’utopia è molto più vicina al cristianesimo che non l’ideologia.

La funzione utopica

La funzione utopica sarebbe non soltanto un movimento circostanziale dell’animo ma uno stato conscio della speranza, un non-ancora-consapevole. Entro i termini della funzione utopica, la fantasia non è, come nel linguaggio comune, un semplice insieme di immagini mentali.

Nella visione classica c’è il perdurare dell’impressione delle cose nelle nostre menti, però la figura del suo senso non è un eidos (idea), ma immagine. L’immagine non è una fotografia delle cose che l’uomo conserva nella sua anima, è piuttosto il perdurare della sua impressione. Al momento in cui una cosa si mostra a noi lo chiamiamo fenomeno, di phaino, mostrar. Il perdurare del fenomeno in noi si esprime con un verbo derivato da phaino, cioè phantazein. Immaginare è fantasticare, quindi far perdurare ciò che si è mostrato a noi. L’essenza dell’immaginazione è fantasia. L’immagine è ciò che sentiamo nella fantasia. In questo momento non è più fenomeno ma fantasma. Però il sentire non è sempre evidente (patente), può essere latente. Questo sentire latente è quello che i latini chiamavano cor, e quando viene fatto-patente diventa un ri-cor-do (re-cor-dor) [Zubiri Xavier, Naturaleza, historia, Dios, Alianza, Madrid 1944, 77].

Nella funzione utopica la fantasia è determinata, non è semplicemente fantasticheria, la fantasia determinata implica un essere-che-ancora-non-è ma che si può aspettare, in quanto anticipa psichicamente il possibile reale.

La forma paradossale dell’utopia che ha possibilità di realizzazione la possiamo chiamare utopico-concreta, cioè qualcosa che non coincide con l’utopico-astratto. La ratio dell’utopia in questo caso corrisponde con un ottimismo militante. Quindi il contenuto dell’atto della speranza è, in quanto consapevole, la funzione utopica positiva; il contenuto storico della speranza, rappresentato in immagini, quindi immaginato, indagato in giudizi reali è la cultura umana orientata al suo orizzonte utopico concreto.

L’utopia va distinta sia dal fattore politico che con facilità la fa decantare in un’ideologia ma anche dall’utopismo o utopia astratta che la fa diventare semplice sogno non-concluso e quindi irrealizzabile. L’utopia in quanto corrisponde ad un desiderio di perfezione diventa anche un ideale; l’ideale supremo sin dai tempi di Platone è il Bene supremo che ancora non è.

La Repubblica
Platone, durante la sua vita, aveva assistito al conflitto e al logoramento reciproco delle due grandi forme di governo che si erano fino ad allora contese il dominio della polis: la democrazia e l’oligarchia (oligoi-archia). La prima aveva condotto Atene alla guerra e alla sconfitta nella guerra del Peloponneso contro Sparta. La seconda, preso il potere in seguito a quella sconfitta —sotto la guida di uno zio di Platone stesso, il “tiranno” Crizia— si era macchiata di crimini orrendi, finendo per venire travolta dopo pochi mesi dalla riscossa democratica. Ma, a sua volta, uno dei primi atti della democrazia restaurata era consistito nella condanna a morte di Socrate (399), sotto l’accusa di simpatie antidemocratiche.

Ad entrambe le forme di regime, Platone rimproverava in primo luogo di non aver governato in nome di tutta la città, e in vista della costruzione di una vita migliore per la comunità intera. La democrazia non era mai stata altro secondo lui che il dominio della massa dei poveri e degli ignoranti; l’oligarchia, la dittatura dei ricchi in difesa dei propri interessi. Entrambi questi regimi non potevano che sfociare nella tirannia, il potere di un solo uomo senza legge e senza giustificazione morale.

Ma la crisi di regime al cui interno egli visse, e alla cui luce elaborò la Repubblica, costituì certamente un terreno estremamente propizio per una riflessione radicale sulla natura del potere e sulla miglior forma di governo, che rappresenta il nucleo del suo dialogo.

Un buon governo deve essere esercitato da un piccolo gruppo di veri competenti, intellettualmente capaci di universalizzazione, cioè della comprensione del bene comune, e perfettamente disinteressati sul piano privato, quindi moralmente qualificati ad un potere di guida e di servizio, non di oppressione e sfruttamento.

Dove reperire allora quelli che Platone chiama le guide e i guardiani della città? A chi affidare il compito di governare la città, di educarla a perseguire nell’unità il bene comune, di farne il teatro dove ognuno può migliorare se stesso e insieme con gli altri costruire uno vita buona per tutti?

La risposta questo quesito costituisce il primo dei tre “scandali” che Platone propone nella Repubblica.

(1) I filosofi al potere. I mali politici non cesseranno mai, egli afferma, finché i filosofi non si impadroniranno del potere o finché coloro che lo detengono non diverranno filosofi. Si tratta, appunto, di uno “scandalo”, perché i greci del tempo di Platone consideravano i filosofi come personaggi bizzarri, astratti, con la testa fra le nuvole, magari innocui ma certo inetti a governare lo stato. Platone pensa però che solo i filosofi, quelli della sua scuola, possano detenere quell’insieme di conoscenza razionali che rendano sia legittimo sia efficace l’esercizio del potere. Si tratta di un insieme di saperi, non solo morali e politici, ma anche teorici e scientifici: tutti insieme essi costituiscono le premesse necessarie per accedere alla comprensione di quella idea del Bene che costituisce la saldatura fra moralità e razionalità, il punto focale di orientamento del pensiero e della prassi, dunque la conoscenza massima e indispensabile per i governanti.
(2) Le donne filosofe. Contro le convinzioni correnti del suo tempo (e non solo del suo), Platone ritiene che non ci sia nessuna ragione per la quale una donna, se opportunamente educata, non possa sviluppare le stesse doti intellettuali e morali di un uomo, e quindi accedere alle sue stesse responsabilità. Ma per questo è necessario che la donna sia liberata dalle cure familiari che tradizionalmente la rinchiudevano nello spazio ristretto dell’ oikos, la casa-famiglia. E questo snodo prepara il terzo e forse maggiore “scandalo” proposto da Platone nella Repubblica.
(3) Eliminazione della proprietà privata per i governanti. Finché i governanti disporranno di patrimonio e di effetti familiari privati, finché potranno cioè dire “questo è mio” di beni, di mogli e di figli, non sarà possibile che il loro potere sia davvero disinteressato e rivolto al bene comune. È dunque necessario estirpare la dimensione privata dalla vita della polis, o almeno di quella parte della polis che è destinata a guidarla e a custodirla. A questa parte non sarà consentito possedere beni privati né una famiglia. Al suo sostentamento provvederanno la comunità compensando i governanti con un salario per il servizio pubblico che essi rendono. Maschi e femmine si uniranno ogni anno, accoppiandosi secondo un sorteggio, per generare i figli. Ma nessuno potrà riconoscere i figli come propri: essi verranno immediatamente sottratti alle madri e allevati a cura dello stato. Ogni adulto considererà come proprio i figli tutti i giovani della generazione nata durante il suo periodo fecondo, e ognuno dei giovani di questa generazione considererà padri e madri tutti gli adulti della generazione precedente.

L’essenza del “comunismo” platonico consiste dunque nell’eliminazione simultanea, almeno per i governanti, della proprietà privata e della famiglia.

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