miércoles, 26 de noviembre de 2008

LEZIONE n. 6: TEOLOGIA DELLA CITTÀ






LEZIONE Nº 6

Aula XXVII (26.11.08)/3ª Ora: 10,20-11,05/4ª Ora: 11,10-11,55

MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione


LA POLITICA (ARISTOTELE)

Nato in torno al 383 a. C. a Stagira (Grecia settentrionale). Discepolo di Platone in Atene per circa venti anni, Aristotele si reco alla morte del suo maestro (347), ad Asso (Asia Minore). Fu precettore del giovane figlio di Filippo II il Macedone, futuro Alessandro Magno. Fondò la scuola filosofica chiamata Liceo, dal greco Lycos, lupo, e significa «protettore del gregge contro il lupo».

Libro I: La Famiglia

Prima di studiare il tema della città, Aristotele trova giusto esaminare a fondo il problema della famiglia, l'òikos, che significa casa, guardando in particolare a quello che è il problema di fondo di tutte le case e le di tutte le famiglie, quello di procurarsi il necessario per vivere bene.

Adopera un’analogia fra la comunità ——in questo caso famigliare— e la politica: Poiché vediamo che ogni stato è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene..., è evidente che tutte tendano a un bene, e particolarmente e al bene più importante tra tutti quella che è di tutte la più importante e tutte le altre comprende: questa è il cosiddetto “stato” e cioè la comunità statale. Secondo Aristotele, sembrerebbe quasi che non ci sia nessuna differenza tra una grande casa e un piccolo stato.

Praticamente, questo ragionamento, oikonomia, o governo della casa, rappresenta il luogo di nascita della scienza economica, anche se il significato inteso da Aristotele è diverso da quello moderno, perché limitato al procurarsi il necessario per vivere bene e non all'accumulo di ricchezze.

Forse in Aristotele troviamo per prima volta una distinzione tra villaggio e città, vediamo quello che dice: Nella forma più naturale il villaggio par che sia una colonia della famiglia, formato da quelli che alcuni chiamano “fratelli di latte”, “figli” e “figli di figli”. Per questo gli stati in un primo tempo erano retti da re, come ancor oggi i popoli barbari: in realtà erano formati da individui posti sotto il governo regale —e, infatti, ogni famglia è posta sotto il potere regale del più anziano, e lo stesso, quindi, le colonie per l’affinità d’origine. Troviamo quindi le prime definizioni di città: La comunità che risulta di più villaggi è lo stato, perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vita, in realtà esiste per render possibile una vita felice.

Qui troviamo la famosa affermazione di Aristotele, cioè che l’uomo è πολιτικόν ζωον, quindi un animale politico o sociale come traducono alcuni: è evidente che lo stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole: quindi chi vive fuori della comunità statale per natura e non per qualche caso o è un abietto o è superiore all’uomo.

Aristote dà priorità allo stato riguardo alla famiglia: Lo stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla parte.

Qual'è il cuore dell’organizzazione statale? Infatti, il diritto è il principio ordinatore della comunità statale e la giustizia è determinazione di ciò che è giusto.

Il primo punto indagato è quello dei vari rapporti esistenti nella famiglia. La famiglia perfetta, dice Aristotele, si compone di schiavi e di liberi. Ve ne sono tre rapporti fondamentali: quello tra padrone e schiavi, quello tra marito e moglie, quello tra genitori e figli.

L’amministrazione domestica è chiamata: crematistica —χρηματιςτική—, cioè l’arte che riguarda τά χρηματα, le cose, le sostanze.

E' molto importante avere chiara la natura di questi rapporti perché essi, in qualche modo, servono da pietra di paragone per i rapporti sociali più ampi nella società politica. La sua idea generale al riguardo è che per natura, nel maggior numero dei casi, ci sono elementi che comandano e elementi che sono comandati. E invero il libero comanda allo schiavo in modo diverso che il maschio alla femmina, l’uomo al ragazzo, e tutti possiedono le parti dell’anima, ma le possiedono in maniera diversa: perché lo schiavo non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa, la donna la possiede ma senza autorità, il ragazzo infine la possiede, ma non sviluppata.

Primo rapporto: Il rapporto tra padrone e schiavi, dove il padrone comanda ed il servo deve obbedire e dove è anche chiaro che il comando ha per oggetto il solo interesse del padrone e dei suoi familiari, non quello del servo. Lo schiavo, secondo Aristotele, è un oggetto di proprietà animato e ogni servitore è come uno strumento che ha precedenza sugli altri strumenti. La sua definizione di schiavo è la seguente: un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: è oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e separato. Perché Aristotele distingue tra gli strumenti che aiutano la produzione e oggetti di proprietà, che sono visti come strumenti d’azione.

Troviamo quel principio che ha avuto tanto influsso nella metafisica occidentale: il vivente, comunque, in primo luogo, è composto di anima e di corpo, e di questi la prima per natura comanda, l’altro è comandato. Si vede la struttura che c’è dietro la sua tesi, il corpo diventa servo dell’anima, di fatti argomenta il filosofo, l’anima domina il corpo con l’autorità del padrone.

Secondo rapporto: Il rapporto tra uomo e donna è, per Aristotele, una relazione tra liberi ed uguali, dove però la donna manca di autorità ed è quindi giusto che sia l'uomo a comandare: Nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata —ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio in questo modo. In un altro posto dice: il maschio è più adatto al comando della femmina. E poi ancora: Alla donna il silenzio reca grazia.

Terzo rapporto: Il rapporto tra genitori e figli è diverso perché i figli non solo mancano di autorità, ma anche della necessaria esperienza del mondo: è quindi un rapporto tra disuguali che giustifica il comando dei genitori in quanto viene fatto nell'interesse dei figli.

Insomma dice Aristotele, è chiaro che la virtù morale appartiene a tutti quelli di cui s’è parlato, ma che non è la stessa la temperanza d’una donna e d’un uomo, e neppure il coraggio e la giustizia, come pensava Socrate, ma nell’uomo c’è il coraggio del comando, nell’altra della subordinazione, e lo stesso vale per le altre virtù.

Le forme di proprietà e la crematistica
La crematistica —χρηματιστική— è l’arte che riguarda τά χρήματα, le cose, le sostanze.

È in discussione, dice Aristotele, se la crematistica sia parte dell’amministrazione domestica o di specie differente.

Proprio della crematistica è esaminare donde derivano beni e proprietà.

Parlando di queste cose introduce una distinzione sul modo di procurare alimento per gli uomini che diventa fondamentale per capire le diverse forme di occupare il territorio nelle forme originarie delle città. I modi di vita degli uomini differiscono molto: I più pigri sono nomadi; altri vivono di caccia, ma la maggior parte degli uomini vive della terra e dei frutti del suolo.

La proprietà è data a tutti dalla natura stessa, subito, appena gli esseri viventi vengono alla luce e così pure quando hanno raggiunto lo sviluppo. Anche la guerra o arte bellica serve per fare acquisizioni: l’arte bellica si deve praticare contro le bestie e contro quegli uomini che, nati per obbedire, si rifiutano, giacché per natura tale guerra è giusta.

La ricchezza vera è costituita da tutti i beni necessari alla vita e utili alla comunità dello stato o della casa. Questo tipo di crematistica, secondo Aristotele, non è illimitata. Qui la proprietà è vista come strumento dell’amministrazione della casa e dello stato.

Esiste però una forma di crematistica per la quale non esiste limite di ricchezza e proprietà.

Forme di crematistica:
Le prime forme di commercio iniziarono con lo scambio di beni, che è visto come un fatto naturale. Aristotele fa un’eccezione: il piccolo commercio non fa parte per natura della crematistica; nella prima forma di comunità, e cioè la famiglia, è evidente che lo scambio non ha alcuna funzione: esso sorge quando la comunità è già più numerosa.

In seguito allo scambio dei doni è stata introdotta la moneta. Quando l’aiuto (alle famiglie) cominciò a venire da terre più lontane, mediante l’importazione di ciò di cui aveva bisogno e l’esportazione di ciò che avevano in abbondanza, s’introdusse di necessità l’uso della moneta.

In terzo luogo è stato introdotto il commercio al minuto. Un tipo di commercio diretto col consumatore. A quanto sembra è in questa momento, che secondo il filosofo, il commercio incomincia ad essere intesso come guadagno di moneta, di soldi: Per questo, quindi, pare che la crematistica abbia da fare principalmente col denaro e che la sua funzione sia di riuscire a scorgere donde tragga quattrini in grande quantità, perché essa produce ricchezza e quattrini. Se spesso si ritiene che la ricchezza consista nel possedere molti denari è proprio perché a questo tendono la crematistica e il commercio al minuto. È allora che Aristotele incomincia a parlare del valore superfluo del denaro e a distinguere tra ricchezza naturale e crematistica. Un uomo, dice, può avere molto soldi, ma trovarsi un giorno senza il necessario per mangiare: certo, strana sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta in abbondanza, lascia morire di fame.

Una distinzione fondamentale: La crematistica e la ricchezza naturale sono diverse. Mentre nella crematistica che rientra nell’amministrazione della casa si dà un limite, giacché non è compito dell’amministrazione della casa il generare ricchezze. Invece la crematistica che ha a che fare col denaro cerca di guadagnarlo ancora di più e così facendo non conosce limite. In entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo stesso modo.

Quelli che praticano la crematistica del guadagno, cadono in un particolare stato mentale, cioè cercano di aumentare ricchezze all’infinito: causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene, e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito bramano mezzi per appagarli. Quanti poi tendono a vivere bene, cercano quel che contribuisce ai godimenti del corpo e poiché anche questo pare che dipenda dal possesso di proprietà, tutta la loro energia si spende nel procurarsi ricchezze, ed è per tale motivo che è sorta la seconda forma di crematistica. Ora, siccome per loro il godimento consiste nell’eccesso, essi cercano l’arte che produce quell’eccesso di godimento e se non riescono a procurarselo con la crematistica ci provano per altra via, sfruttando ciascuna facoltà in maniera non naturale.

Riasunto:
Perciò è secondo natura per tutti la crematistica che ha come oggetto i frutti della terra e gli animali. Essa, come dicemmo, ha due forme, l’attività commerciale e l’economia domestica: questa è necessaria e apprezzata, l’altra basata sullo scambio, giustamente riprovata (infatti non è secondo natura, ma praticata dagli uni a spese degli altri); perciò si ha pienissima ragione a destare l’usura, per il fatto che in tal caso i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello scambio, mentre l’interesse lo fa crescere sempre più (e di qui ha pure tratto il nome —τόκος, figlio, interesse, dalla stessa radice di τίκτειν “generare”:in realtà gli esseri generati sono simili ai genitori e l’interesse è moneta da moneta): sicché questa è tra le forme di guadagno la più contraria a natura.

Le parti della crematistica intesa nella forma più propria e genuina:
→ quanto alla forma dello scambio: 1. il commercio (Allestimento di navi; Trasporto delle merci; Vendita); 2. prestito a interesse; 3. lavoro retribuito (operai meccanici, sfruttamento del corpo)

C’è una terza forma di crematistica tra quella naturale e quella dello scambio commerciale: essa ha a fare coi prodotti della terra e con quante altre cose dalla terra derivano e che, senza portar frutti, sono ugualmente utili, come per es. il taglio dei boschi e l’arte mineraria in blocco.
Monopolio commerciale: si da quando un commerciante o uno stato acquista tutto il prodotto, di una materia in particolare, che è sul mercato, ad esempio il ferro, per venderlo dopo a un prezzo senza concorrenti.

jueves, 20 de noviembre de 2008

I FUNERALI DELLO STUDENTE ANDREW CHIKWAIWA


Lo studente Andrew CHIKWAIWA frequentava il nostro corso su TEOLOGIA DELLA CITTÀ e siamo dispiaciuti per la sua morte.

I suoi funerali il giorno 21 alle ore 9,00 nel collegio San Paolo di Propaganda Fide. Sono presenti gli studenti della Facoltà di Missiologia della Pontificia Universitas Urbaniana, i professori e le autorità accademiche.

Una preghiera per la sua anima e per i suoi famigliari che rimpiangono la sua morte.

A noi la missione di continuare a costruire il Regno predicato da Gesù e che ha motivato tutta la vita del nostro Andrew CHIKWAIWA.

miércoles, 19 de noviembre de 2008

LEZIONE N. 5: TEOLOGIA DELLA CITTÀ...



Aula XXVII (19.11.08) 3ª Ora: 10,20-11,05 4ª Ora: 11,10-11,55

MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione


I particolari della repubblica di Platone

TESTI DELLA REPUBBLICA

L’origine dello stato:
Lo stato è nato per la ricerca del bene comune delle persone: Secondo me, ripresi, uno stato nasce perché ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni.

L’espansione e la “nascita” delle città e della “guerra”:
— E quel territorio che prima era sufficiente a nutrire i suoi abitanti, da sufficiente sarà diventato piccolo. O come si deve dire? —Così, rispose. —E non dovremo prenderci una porzione del territorio dei vicini se vorremo aver terra sufficiente per pascolare e arare? E non dovranno essi pure prendersene del nostro, se covano anche loro sconfinata brama di ricchezza, oltre il limite del necessario? —Inevitabile, Socrate, ammise. —E allora, Glaucone, faremo la guerra?
— Qualunque sia la situazione, le città sono due, tra loro nemiche: la città dei poveri e quella dei ricchi. Ed entro ciascuna ne essistono moltissime.


Un’apposita categoria di cittadini che si dedichi alla guerra e alla difesa dello stato:
I guardiani:
caratteristiche, per natura:
· Praticano il thymós, essere coraggiosi, animosi;
· Sono anche loro filosofi.
· Veloce e vigoroso.
· Non si deve poi lasciare che i nostri uomini accettino doni o siano attaccati al denaro.
· Scrupolosissimi artefici della libertà dello stato e non devono attendere ad altro scopo, essi non dovranno allora né fare né imitare altra cosa.
· Sorvegliati in ogni età, fin da fanciulli.
· Nessuno deve avere sostanze personali, a meno che non ce ne sia necessità assoluta; nessuno deve poi disporre di un’abitazione o di una dispensa cui non possa accedere chiunque lo voglia.
· Devono vivere in comune, frequentare mense collettive.
· Devono vigilare in ogni modo che lo stato non sembri né piccolo né grande, ma conservi una sua giusta misura e sia uno.
· Possono essere anche donne: Ebbene, siamo coerenti e attribuiamo alle donne analoga nascita e analogo allevamento, ed esaminiamo se la cosa ci conviene o no. —Ogni cosa deve essere comune, rispose; con l’eccezione che li impieghiamo tenendo presente che le une sono più deboli, gli altri più vigorosi. —Se dunque impieghiamo le donne per gli identici scopi per i quali impieghiamo gli uomini, identica deve essere l’istruzione che diamo loro. —Nell’amministrazione statale non c’è occupazione che sia propria di una donna in quanto donna né di un uomo in quanto uomo; ma le attitudini naturali sono similmente disseminate nei due sessi, e natura vuole che tutte le occupazioni siano accessibili alla donna e tutte all’uomo, ma che in tutte la donna sia più debole dell’uomo. —E dunque donna e uomo presentano la stessa naturale attitudine alla guardia dello stato, con la sola eccezione che si tratta di una natura più debole e più vigorosa. —Perciò le donne dei guardiani devono spogliarsi, dato che si vestiranno di virtù anziché di abiti;e cooperare nella guerra e negli altri compiti di guardia dello stato, senza occuparsi d’altro. —Queste donne di questi nostri uomini siano tutte comuni e tutti e nessuna abiti privatamente con alcuno; e comuni siano poi i figli, e il genitore non conosca la propria prole, né il figlio il genitore.
·
È un uomo di guerra e filosofo, pratica la matematica, la geometria e l’astronomia.

Educazione dei cittadini:
Ginnastica, musica.
Si deve tenere in gran conto la verità. Però: se c’è qualcuno che ha diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare nemici o concittadini nell’interesse dello stato.
Le virtù: sapienza, coraggio, temperanza e giustizia.
Il matrimonio: i migliori devono unirsi alle migliori più spesso che possono, e, al contrario, i più mediocri con le più mediocri; e si deve allevare la prole dei primi, non quella dei secondi, se il nostro gregge dovrà essere quanto mai egregio. —Prenderanno i figlioli dei buoni e li porteranno al nido d’infanzia, presso nutrici abitanti a parte in un determinato settore della città. Invece i figlioli degli elementi peggiori e anche l’eventuale prole minorata degli altri, li nasconderanno, come è bene, in un luogo segreto e celato alla vista. —Nessuno riconosca al proprio figlio.

I malati e le cure mediche:
I medici: cureranno quelli che siano naturalmente sani di corpo e d’anima. Quanto a quelli che non lo siano, i medici lasceranno morire chi è fisicamente malato, i giudici faranno uccidere chi ha l’anima naturalmente cattiva e inguaribile. —Questa è evidentemente la migliore soluzione, disse, sia per questi stessi sciagurati sia per lo stato.

I capi dello stato:
Deve essere filosofo: quelli che amano ciascuna cosa che è, essa per se stessa, li dobbiamo chiamare filosofi, ma non filodossi. Anche i guardiani devono essere preferibilmente filosofi. Potrebbe la massa diventare filosofa? È impossibile che la massa sia filosofa, dice Platone.


I filosofi, secondo il mito della caverna e il mondo delle idee di Platone, abitano il mondo delle idee, e loro compito è quello di guidare coloro che si trovano ancora nelle ombre di questo mondo di apparenze a quello della luce, e “reale” proprio delle idee. Reale per Platone non sono le cose visibili ma le idee delle cose: L’amministrazione dello stato sarà una realtà, non un sogno, come invece oggi avviene nella maggioranza degli stati, amministrati da persone che si battono tra loro per ombre e si disputano il potere, come se fosse un grande bene. — Si tratta, in definitiva, di volgere l’anima da un giorno tenebroso a un giorno vero, ossia di un’ascesa a ciò che è; e la diremo vera filosofia. — Uno studio che eleva la parte migliore dell’anima alla contemplazione dell’essere più sublime. —Il metodo applicato dai filosofi è la dialettica. —L’uomo dialettico ci si rende ragione dell’essenza di ciascuna cosa.


Le diverse costituzioni di uno stato:
Una prima distinzione:
All’elemento razionale, che è sapiente e vigila su tutta l’anima, non toccherà governare? E all’elemento animoso essergli suddito e alleato?
Le costituzioni secondo Platone, c’è una distinzione fondamentale, se i governanti è uno solo si chiama regno; se invece sono parecchi allora si chiama aristocrazia.

1. Timocrazia propria di Creta e Laconia (Grecia).
2. Oligarchia
3. Democrazia
4. Tirannide

Riassunto:
La timocrazia potrà nascere dell’aristocrazia. Dalla generazione dello stato perfetto nasce lo stato timocratico. Lo stato timocratico è caratterizzato dalla prevalenza dell’elemento animoso e quindi dell’ambizione e da un occulto amore del denaro.

Quando l’amore del denaro diventa palese, sorge lo stato oligarchico, fondato sul censo. Lo stato oligarchico è necessariamente duplice: dei poveri e dei ricchi. Come fa l’oligarchia a rimanere nel potere: ottengono questi risultati con la violenza, ricorrendo alle armi, o anche, prima di giungere a questo, mettono in vigore tale costituzione con l’intimidazione.

Come si passa dallo stato oligarchico a quello democratico? La rivolta dei poveri: Nelle oligarchie i governanti, poiché sono negligenti e permettono una vita dissoluta, talvolta hanno costretto alla povertà uomini non ignobili. Ora, dice Platone, La democrazia nasce quando i poveri, dopo aver riportata la vittoria, ammazzano alcuni avversari, altri ne cacciano in esilio e dividono con i rimanenti, a condizione di parità, il governo e le cariche pubbliche, e queste vi sono determinate per lo più col sorteggio.

La tirannide. Platone pone un’importante premessa: Ogni eccesso suole comportare una grande trasformazione nel senso opposto. E dice: L’eccessiva libertà, sembra, non può trasformarsi che in eccessiva schiavitù, per un privato come per uno stato. — È naturale quindi, che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia; cioè, a mio avviso, dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce.

Alcune caratteristiche del tiranno:
Comincia a sollevare guerre in continuazione, perché il popolo abbia bisogno di un capo.
Elimina gli amici e nemici di un certo valore
per timore a perdere il potere.
È un uomo infedele. Se il tiranno elimina ai migliori uomini del suo stato, ciò significa che è costretto alla mediocrità: Beato dilemma è quello in cui si trova implicato, un dilemma che gli impone o di vivere insieme con la maggioranza mediocre, o di rinunciare a vivere!

I tipi di uomini che corrispondono ad ogni costituzione: uomo regale, timocratico, oligarchico, democratico, tirannico.

Punti ricorrenti nella Repubblica:

Sorvegliare i poeti: —In questo momento, Adimanto, tu ed io non siamo poeti, ma fondatori di uno stato. I poeti secondo Platone diffondono storie spaventose riguardanti la vita dopo la morte e questo, secondo lui, provoca la paura della morte nei combattenti dell’esercito, il che porta loro a temere il confrontarsi nella lotta. Occorre, dice Platone, smetterla con simili favole, cioè quelle dei poeti. —Dobbiamo dunque solamente sorvegliare i poeti e forzarli a dare nei loro poemi l’immagine del carattere buono, o, se no, a non svolgere tra noi la loro opera poetica?


Ciascun individuo deve attendere a una sola attività nell’organismo statale, quella per cui la natura l’abbia meglio dotato.


Per la costruzione della definizione contemporanea di città è interessante la costante del bisogno di sorvegliare le città, un elemento che sarà capito meglio quando studieremmo il saggio di Michel Foucault, Sorvegliare e punire.

lunes, 17 de noviembre de 2008

LEZIONE n. 5: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...


LEZIONE Nº 5

(Martedí, 18.11.08)/Aula XXVII 3ª Ora: 10,20 – 11,05 4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.
Sviluppo a quale prezzo? (continuazione)

Durante la lezione numero 3 (martedí, 21.10.08) avevamo fatto una critica alla società moderna e avevo promesso di parlare durante la lezione n. 4 della postmodernità come critica della modernità. Ebbene, durante la lezione n. 4 ho parlato di quello che ritengo uno dei punti di partenza della critica alla modernità in quanto età dell’industrializzazione, quindi ho presentato la tesi di Horkheimer sulla ragione strumentale, però intendo, durante la presente lezione, secondo quanto promesso e non compiuto durante la lezione n. 4, di fare un piccolo passaggio sulla questione della postmodernità.

Fatto questo passaggio riprendo il nostro percorso tentando di anticipare qualche risposta alla crisi moderna, quindi passo a quello che ritengo sia la causa della crisi e quella che dovrebbe essere una linea alternativa e di risposta. In questo senso la presente lezione avrà i seguenti passaggi: (1) sul concetto di post-modernità; (2) Morale planetariai: (a) rapporto uomo-natura e (b) patto generazionale.

Le letture consigliate:
Lacroix Michel, El humanicidio. Ensayo de una moral planetaria, Sal Terrae, Santander 1995 [L’Humanicide. Pour une morale planétaire, Librairie Plon, Paris 1994]; Moltmann J., La giustizia crea futuro, 20-22; Anders Günther, L’uomo è antiquato, vol. 1: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Id., vol. 2: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2007; Jonas Hans, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2002.


La modernità in crisi: il post-moderno

Non ci domandiamo cosa sia, perché ritengo non sia ancora definibile: si possono indicare delle tendenze.

Noi viviamo la terza industrializzazione: se la prima era quella della “meccanizzazione” e la seconda quella dell’“elettrificazione”, la terza riguarda la computerizzazione della produzione. Come giustamente ha detto Lyotard, se nei secoli anteriori la lotta era per la conquista del territorio, adesso la lotta è per la conquista dello spazio, inteso come contesto della comunicazione.

Se la modernità non è riuscita a dare un senso di totalità, il postmoderno si presenta nella sua frammentarietà.

Lyotard aveva parlato, del dibattito tra sapere narrativo e sapere scientifico, della legittimità del sapere popolare intesso come racconto e aveva avvertito anche del pericolo di manipolazione del concetto di “popolo” per giustificare l’ennesima volta il sapere scientifico. Tra l’altro tutti sappiamo che originariamente la scienza è in conflitto con le narrazioni. La contraddizione rilevata da Lyotard consiste nel fatto che il sapere scientifico accusa il sapere narrativo di essere favolistico, che di solito tiene come soggetto il popolo, ma allo stesso tempo il sapere scientifico ha bisogno di giustificare le sue scelte davanti al popolo, e qui si può pensare per esempio al tema ecologico.

D’altra parte dice Lyotard, l’annullamento di ogni pretesa di unificare il mondo in grandi sintesi, metafisiche o religiose, fa spazio al pensiero debole, alla logica femminista, alle forme religiose esoteriche, alle esperienze diverse. Il postmoderno, diverso alla modernità, intende la frammentarietà e la pluralità come una conquista e non come una confusione, come una liberazione e non come una perdita.

Se si vogliono sintetizzare alcuni elementi cari alla postmodernità, ne elenchiamo alcuni: (a) Ecologismo, (b) Femminismo, (c) Pacifismo, (d) Pluralismo reale, (e) Esoterismo.

Lyotard: Semplificando al massimo, possiamo considerare “post-moderna” l’incredulità nei confronti delle meta-narrazioni. Si tratta indubbiamente di un effetto del progresso scientifico; il quale tuttavia presuppone a sua volta l’incredulità. Al disuso del dispositivo metanarrativo di legittimazione corrisponde in particolare la crisi della filosofia metafisica.

Ma anche la sensibilità postmoderna va sottoposta a critica:

G. COLZANI: Il passaggio della pluralità indeterminata del sistema postmoderno alla scelta determinata della libertà non può avvenire in base al postmoderno ma deve necessariamente appellarsi a qualcosa d’altro; sotto un rigoroso profilo postmoderno, la libertà è indifferenza, cioè, è incapacità di scelta o pura scelta nel disinteresse pieno per il suo oggetto. È uno svuotamento della libertà e porta ad una vera emancipazione della persona. Nel postmoderno la persona si perde in mille possibilità, nessuna di esse “forte”. Soltanto l’introduzione di un riferimento assoluto rispetta davvero la finitezza umana e la sottrae a un mortificante nichilismo.

L. BOFF: I soggetti del discorso e delle pratiche postmoderni sono spesso figli della società capitalista e industrializzata dei consumi. Sono quelli che possono pensare che “tutto vale” (anything goes), che non devono lottare, la cui vita è già garantita. Ma non è questa la situazione di gran parte dell’umanità.

Le prospettive
L. BOFF: Soltanto norme etiche riconosciute da tutti possono creare istituzioni compatibili con la socializzazione umana. Nel suo aspetto positivo, il discorso postmoderno può rappresentare una speranza per le vittime della modernità, e tra di esse le popolazioni del Terzo mondo; la speranza cioè di porre fine al dominio, alla distruzione e all’esclussione delle alterità e delle differenze.

J.-F. LYOTARD: La condizione post-moderna è tuttavia estranea al disincanto, così come alla cieca positività della delegittimazione. Dove può risiedere la legittimità dopo la fine delle meta narrazioni? Il criterio di operatività è tecnologico, non è pertinente per giudicare del vero o del giusto. Forse nel consenso ottenuto attraverso la discussione, come ritiene Habermas?

In questo momento storico, dice l’autore, il sapere diventa merce: l’assioma sapere, dunque, formazione dello spirito e della personalità è stato superato: «il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per essere scambiato. Cessa di essere fine a se stesso, perde il proprio “valore d’uso”.

La cosa che mi colpisce nella dialettica tra pensiero narrativo e pensiero scientifico, è il fatto che il pensiero narrativo ancora oggi è legato a delle tradizioni culturali precise e tante volte localizzabili, e il pensiero scientifico ogni volta ha bisogno dello spazio delle comunicazioni; in termini reali però il rapporto è più drammatico, molte delle materie prime di cui ha bisogno il sapere scientifico per i suoi esperimenti deve prenderle proprio nelle località in cui il sapere narrativo è ancora molto forte. Quindi poniamo qui il problema della dipendenza-dominio dei due ordini di sapere, e dal fatto che il sapere scientifico, non si giustifica da sé stesso, soprattutto se distrugge ciò che giustifica il suo successo, cioè la materia prima da dove prende i materiali per le sue ricerche.

1.2 Verso una morale planetaria

a. Il rapporto uomo-natura
Da quanto abbiamo visto nelle lezioni precedenti la chiave di lettura della crisi della modernità inizia quando l’uomo intende la ragione in modo strumentale facendola diventare un mezzo; in questo modo mancando il rispetto di se stesso l’uomo ha messo in pericolo il suo rapporto con la natura. Le caratteristiche del rapporto uomo-natura sono il punto di partenza per capire i problemi e le possibilità che ha la società contemporanea.

L’uomo, in virtù della facoltà auto-appresa del discorso, del pensiero e del sentimento sociale, costruisce una casa per la sua autentica umanità —vale a dire la formazione artificiale della città. In questo senso, la violazione della natura e la civilizzazione dell’uomo vanno di pari passo. L’uomo è l’artefice della propria vita in quanto umana; egli sottomette le circostanze alla propria volontà e ai propri bisogni e, tranne che dinanzi alla morte, non è mai disarmato.

Però se la ragione vien dichiarata incapace di stabilire gli scopi ultimi all’esistenza umana e deve accontentarsi di ridurre tutto a semplice strumento, le rimane un solo fine, e cioè quello di perpetuare la propria attività coordinatrice.

La questione è che l’essere umano, nel processo della sua emancipazione, condivide il destino di tutto il resto del suo mondo. Nel dominio sulla natura è incluso il dominio sull’uomo.

Ciò che gli ecologisti temono, ad esempio, è il fatto che gli uomini e le nazioni che hanno il potere in questo mondo, disperati per non potere superare il circolo biologico, vita-morte, che impone la natura, e non potendo sottrarsi agli effetti prodotti dalle proprie azioni contro la natura, cadano in uno stato di superbia e di egoismo, arrivando a dichiarare non solo il suicidio della propria persona ma anche addirittura lo sterminio imposto a tutto il pianeta. Evidentemente lo sterminio in forma di inquinamento globale è già iniziato.

Ego e natura sono in lotta. Da una parte l’io, l’astratto ego svuotato di ogni sostanza tranne che di questo tentativo di trasformare tutto quanto sta nel cielo e sulla terra in uno strumento della sua sopravvivenza, e dall’altro una natura anch’essa svuotata, degradata a pura materia, che dev’essere dominata senz’altro fine fuorché quello appunto di dominarla.

Si potrebbe dire che oggi è stata tolta alla natura la sua facoltà di parlare. Da una parte la natura è stata svuotata d’ogni valore o significato intrinseco; dall’altra la vita dell’uomo è stata svuotata d’ogni fine che non sia quello dell’autoconservazione. L’uomo cerca di trasformare tutte le cose a sua portata in un mezzo per questo fine. Sono stati i metodi di produzione dell’economia mondiale che ci hanno portato a vedere il mondo come mondo dei mezzi e no dei fini. L’insensibilità dell’uomo moderno di fronte alla natura è solo una variante dell’atteggiamento pragmatico caratteristico di tutta la civiltà occidentale. Il principio del dominio dell’uomo sulla natura è divenuto l’idolo al quale si sacrifica tutto. La cosa che più colpisce è il fatto che la storia dello sforzo dell’uomo per soggiogare la natura è anche la storia del soggiogamento dell’uomo da parte dell’uomo. L’ego che vuole dominare la natura diventa l’uomo che vuole dominare agli altri uomini, e quest’ultimo dominio diventa a sua volta sistema di dominio sociale.

Una manipolazione del conflitto uomo-natura c’è stato nella storia: i colonizzatori vedevano negli indigeni neri e americani uomini senza anima e quindi potevano essere schiavizzati; il nazismo parlava di super-uomini denigrando altri ritenuti non-uomini e quindi uccidendoli; il darwinismo parla di una selezione delle specie, nel senso che i più forti riescono a sopravvivere mentre i più deboli devono morire. È vero che questa mentalità che concepisce l’uomo come unico e assoluto padrone del mondo si può far risalire fino ai primi capitoli della Genesi. Ma di questo ci occuperemmo in un’altra lezione. In generale le dottrine che esaltano la natura o la primitività a spese dello spirito non favoriscono la riconciliazione con la natura: al contrario, incoraggino l’insensibilità e la cecità nei confronti di essa.

È chiaro dunque che l’attacco alla natura è un attacco anche all’uomo stesso. Gli adoratori del progresso tecnico sembrano non preoccuparsi di questa circolarità inevitabile tra uomo e natura. L’uomo nel suo affanno di dominio è riuscito a creare una macchina tutt’opera sua, artificiale, ma succede in questo caso che la macchina ha gettato a terra il conducente, e corre ceca nello spazio. Al culmine del processo di razionalizzazione, la ragione è diventata irrazionale e stupida. Il tema del nostro tempo è quello della conservazione dell’io, mentre non v’è più nessun io da conservare.

L’esempio più evidente, che esprime l’opera delle mani umane, sono le città, l’uomo poté conferire ad esse un certo grado di durata mediante le leggi, che per essa egli ideò e si accinse ad onorare. Ma alla lunga nessuna certezza caratterizzava questa continuità artificiale. Nella città in quanto formazione sociale artificiale, in cui gli uomini hanno rapporti con altri uomini, l’intelligenza deve unirsi alla moralità, poiché quest’ultima è l’anima della sua esistenza. Fin qui è arrivato il rapporto uomo-natura, mentre la natura ha le sue proprie regole, l’uomo invece per potere andare avanti ha bisogno di regole per l’opera delle sue mani, altrimenti rischia il caos totale, danneggiando lui stesso e la natura.

La consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, o che questa si è indissolubilmente congiunta a quelle, costituisce la tesi fondamentale per potere parlare di una morale o di un’etica planetaria.

La fondazione di una tale morale si potrà porre la questione del perché gli uomini debbano esistere nel mondo, del perché quindi valga l’imperativo incondizionato di assicurare la loro esistenza futura. L’avventura della tecnologia con le sue imprese arrischiate fino all’estremo costringe ad assumersi il rischio di una riflessione spinta all’estremo.

Questo nuovo obbligo, cioè quello di una morale planetaria va espresso in termini di responsabilità. Dall’ampliamento della dimensione futura della responsabilità attuale consegue il tema conclusivo: l’utopia. La dimensione del progresso tecnologico mondiale in quanto tale racchiude in sé, tendenzialmente se non programmaticamente, un utopismo implicito. Questo impone una critica approfondita dell’ideale utopico. All’immodestia degli obiettivi dell’utopismo tecnologico, che manca il bersaglio sotto il profilo sia ecologico che antropologico, il principio responsabilità contrappone il compito più modesto, dettato dalla paura e dal rispetto, di preservare all’uomo, nella residua ambiguità della sua libertà, che nessun mutamento delle circostanze può mai sopprimere, l’integrità del suo modo e del suo essere contro gli abusi del suo potere. Ci vuole come, ha detto H. Jonas, un Tractatus technologico-ethicus.


b. Patto generazionale

Il rapporto uomo-natura ha passato per tre momenti:

Un primo momento d’armonia, corrispondente al periodo preistorico e ancora non scomparso in alcune continenti, è caratteristico di questo periodo è il vedere in modo maternale il rapporto con la natura, si parla di Madre-Terra, Madre-Natura, Madre-Gaia.

Importante ricordare che già nella mitologia greca Gaia è la dea che personifica la Terra, però la figura non appartiene solo al mondo greco-romano, ma compare in altre culture: per gli accadici Kubala, per gli ebrei Eva, la Magna Mater (Cibele), nel Sudamerica la Pachamama (di pacha, ‘tempo’ o ‘época’, y mamma, ‘madre’, in quechua), al Messico Tonantzin Tlalli.

Infine c’è anche l’ipotesi Gaia, cioè la teoria formulata da James Lovelock nel 1979 (Gaia. A New Look at Life on Earth). Questa tesi intende il pianeta terra come un vero sistema vivente.
Gustav Jung riteneva che la madre archetipica fosse una parte dell’inconscio collettivo di tutti gli uomini.

Un secondo momento è di discordia. Questo periodo corrisponde alla rivoluzione tecnico-industriale. Nel periodo predomina il monismo, nel secondo il dualismo, uno stato di separazione, che ha avuto grosse conseguenze.

Il terzo periodo dovrebbe orientarsi verso un’armonia con la natura. In questo momento forse non è il caso di parlare di un ritorno ai valori del mondo primitivo ma di una riconciliazione con la natura. Penso che il danno causato alla natura sia irreversibile e non credo proprio che l’antropo-sfera [è —in ecologia e nelle scienze sociali— quella parte dell'ambiente fisico creata e organizzata quale risultato dell'attività antropica, soprattutto in relazione agli edifici presenti nell'ambito degli insediamenti urbani ed alle strutture ad essi connesse] si possa unire alla bio-sfera [in ecologia si definisce biosfera (o ecosfera) l'insieme delle zone del pianeta Terra in cui le condizioni ambientali permettono lo sviluppo della vita. Queste zone in cui si sviluppa la vita, che si pensa sia nata almeno 3,5 miliardi di anni fa, includono la litosfera (sottosuolo e superficie terrestre), l'idrosfera (le acque marine, lacustri e fluviali), ed i primi strati dell'atmosfera (fino ad una altitudine di ca. 10 Km)], i due ordini si sono separati definitivamente. Comunque si può e si deve parlare di un patto o di un contratto con la natura. Si tratta di un accordo tra quelli che viviamo il presente, ma è anche un patto generazionale, nel senso che noi pensiamo pure alle generazioni future.

È indispensabile, per il bene di tutti, che ci sia un patto a tre livelli: tra l’uomo e la natura, tra Nord e Sud e con le generazioni future. È un patto che è insieme ecologico, politico ed etico.

b.1. Tra uomo e natura
Nessuno sfugge ad una costatazione: se sopravviene la catastrofe planetaria, quindi la morte, sará una catastrofe comune a tutti. Ma analogamente, la sopravvivenza può riuscire solo se l’affrontiamo insieme. Tra la morte collettiva e la sopravvivenza collettiva non esiste soluzione intermedia.

La morale planetaria crede che i concetti di lotta di classe marxista e la lotta delle specie di Darwin siano nozioni superate. Con T. Chardin afferma che nell’avvenire, la sopravvivenza non sará questione d’eliminarsi uni gli altri ma di restare uniti e propone la sostituzione del ethos della competizione con quello della cooperazione.

b.2. Tra Nord e Sud
C’è un principio di interdipendenza tra Nord e Sud. L’unica soluzione che si intravede la morale planetaria è la solidarietà. Naturalmente una solidarietà planetaria de facto richiama anche una solidarietà di de iure. Tutti sappiamo che i problemi del Sud non sono problemi provocati in modo naturale non sono “volontà di Dio”, bisogna dunque stabilire delle responsabilità di un’ingiustizia planetaria. Il primo mondo con molta frequenza finanzia le guerre del terzo mondo, a volte perfino consente i conflitti con la finalità di approfittar delle risorse naturali di quei paesi. La morale planetaria non può dimenticarsi di questa ingiustizia strutturale planetaria.

Inoltre, se la questione principale è il primum vivere, cioè la sopravvivenza, questa priorità non può essere pensata solo a livello nazione sotto la scusa che il fine della politica è la costruzione di una società più giusta, intendendo per società soltanto il proprio paese. Il nazionalismo politico, sociale ed economico deve diventare pluralismo solidario aperto ai bisogni reali dei paesi poveri. In questo senso la ricerca di soluzioni condivise non è altruismo o esercizio della carità, diventa qualcosa di indispensabile per la mutua sopravvivenza.

b.3. Tra noi e le generazioni future.
Fino ad oggi era impensabile che ci fosse un richiamo urgente della morale per le generazioni future, questo richiamo è venuto fuori nel momento in cui il futuro dell’umanità è in pericolo d’estinzione per lo sviluppo del nucleare e per il degrado ecologico. La morale allora deve trovare una giustificazione per prendere in considerazione i diritti di esseri ancora non esistenti, sarebbe una visione diacronica della morale. La morale chiede alla generazione presente che «faccia da padrino», per prima volta nella storia della civilizzazione, ai non-nati della famiglia umana. Questa decisione nel confronto delle nuove generazioni si può intendere in tre sensi: (1) garantire la vita e la sicurezza dei non-nati; (2) non fare cattivo uso di ciò che abbiamo ricevuto in eredità; (3) rispettare i tempi che la natura necessita per la formazione e accumulazione delle risorse, quindi non depredarle in modo istantaneo; cerchiamo di consegnare in buon stato ciò che abbiamo ricevuto, di fatto non siamo proprietari di questo patrimonio naturale.

Vogliamo proporre alcuni atteggiamenti per l’uomo nuovo e responsabile: il cambio di mentalità; passare della logica delle cifre a quella della qualità; bisogna demistificare la logica della crescita e del progresso; non generalizzare l’american way of (stile di vita nord-americano), cioè quello del consumo eccesivo di energia. La felicità collettiva e la salvaguarda del pianeta, contro il liberalismo economico, non può venire dalla semplice ricerca degli interessi individuali.
Anche le religioni possono dare il loro contributo per una riforma ecologica. Il presupposto per una svolta ecologica della società industriale sta in una conversione spirituale e culturale che affonda le sue radici in una nuova esperienza religiosa della realtà di Dio nella natura.

miércoles, 12 de noviembre de 2008

LEZIONE N. 4/ TEOLOGIA DELLA CITTÀ...


(12.11.08) Aula XXVII 3ª Ora: 10,20-11,05 4ª Ora: 11,10-11,55

MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione



LA REPUBBLICA DI PLATONE (πολιτεία)

Bibliografia: PLATONE, La Repubblica, Laterza, Bari 2008 [a cura di Vegetti Mario]. Sul significato del concetto utopia: FROSINI Giordano, Babele o Gerusalemme?, 47-51. Sulla funzione utopica: BLOCH Ernst, El principio esperanza, vol. 1, Trotta, Madrid 2004, 181-236.

Quando Platone, verso il 390 a.C. scrisse quest'opera sotto forma di dialogo, aveva circa 40 anni.

Si può dire che con questa opera dà inizio alla letteratura upotica, nella quale troviamo una serie di proposte letterarie nelle quali si plasmano le diverse costruzioni ideali della città. Come ha detto J. Comblin, «la città è stata sempre l’argomento prediletto delle “utopie”», il punto è stato sempre quello di’immaginare una città perfetta [cfr. J. Comblin, Teologia della città, 24].

La città utopica

È il nome che Tommaso Moro dà alla sua opera che studieremo più avanti, il cui significato è non luogo (ou tópos).

Secondo Jung l’utopia è un archetipo generico dell’inconscio collettivo. Ma la gente comune lo adopera ad ogni forma di realtà che sembra non potersi realizzare.

Nella sua accezione positiva, dunque, utopia vuole significare qualcosa di lontano e di irraggiungibile almeno nella sua pienezza, verso cui, però, possiamo e dobbiamo sempre camminare in una progressiva e instancabile marcia di avvicinamento.

Il principio utopico è presente nell’animo delle persone. Alla base di ogni costruzione utopica noi possiamo trovare il principio della speranza. Le utopie in questo senso possono fare che la storia si muova. Esse sono orientate verso un futuro nuovo.

Paolo VI, nella sua lettera apostolica Octogesima adveniens (anno1971, 80º anniversario dell’enciclica Rerum Novarum), parla di una Rinascita delle utopie:

n. 37:
Meglio si comprendono oggi i lati deboli delle ideologie esaminando i sistemi concreti nei quali esse cercano di realizzarsi. Socialismo burocratico, capitalismo tecnocratico, democrazia autoritaria manifestano la difficoltà di risolvere il grande problema umano della convivenza nella giustizia e nella uguaglianza. In realtà, come potrebbero essi sfuggire al materialismo, all'egoismo o alla violenza che fatalmente li accompagnano? Da dove viene la contestazione che nasce un po' ovunque, segno di un disagio profondo, mentre si assiste alla rinascita di «utopie» che pretendono di risolvere il problema politico delle società moderne con più efficacia delle ideologie? Sarebbe pericoloso non ammetterlo: l'appello all'utopia è spesso un comodo pretesto per chi vuole eludere i compiti concreti e rifugiarsi in un mondo immaginario. Vivere in un futuro ipotetico rappresenta un facile alibi per sottrarsi a responsabilità immediate. Bisogna però riconoscere che questa forma di critica della società esistente stimola spesso l'immaginazione prospettica, ad un tempo per percepire nel presente le possibilità ignorate che vi si trovano iscritte e per orientare gli uomini verso un futuro nuovo; tramite la fiducia che dà alle forze inventive dello spirito e del cuore umano essa sostiene la dinamica sociale; e se non si nega a nessuna apertura, può anche incontrarsi con il richiamo cristiano.

Tutti in qualche modo abbiamo bisogno di un’utopia per portare avanti la nostra vita. Le utopie nascono dalla insoddisfazione del presente, dalla non-rassegnazione dello spirito umano, chiamato sempre a trascendersi.

L’utopia è molto più vicina al cristianesimo che non l’ideologia.

La funzione utopica

La funzione utopica sarebbe non soltanto un movimento circostanziale dell’animo ma uno stato conscio della speranza, un non-ancora-consapevole. Entro i termini della funzione utopica, la fantasia non è, come nel linguaggio comune, un semplice insieme di immagini mentali.

Nella visione classica c’è il perdurare dell’impressione delle cose nelle nostre menti, però la figura del suo senso non è un eidos (idea), ma immagine. L’immagine non è una fotografia delle cose che l’uomo conserva nella sua anima, è piuttosto il perdurare della sua impressione. Al momento in cui una cosa si mostra a noi lo chiamiamo fenomeno, di phaino, mostrar. Il perdurare del fenomeno in noi si esprime con un verbo derivato da phaino, cioè phantazein. Immaginare è fantasticare, quindi far perdurare ciò che si è mostrato a noi. L’essenza dell’immaginazione è fantasia. L’immagine è ciò che sentiamo nella fantasia. In questo momento non è più fenomeno ma fantasma. Però il sentire non è sempre evidente (patente), può essere latente. Questo sentire latente è quello che i latini chiamavano cor, e quando viene fatto-patente diventa un ri-cor-do (re-cor-dor) [Zubiri Xavier, Naturaleza, historia, Dios, Alianza, Madrid 1944, 77].

Nella funzione utopica la fantasia è determinata, non è semplicemente fantasticheria, la fantasia determinata implica un essere-che-ancora-non-è ma che si può aspettare, in quanto anticipa psichicamente il possibile reale.

La forma paradossale dell’utopia che ha possibilità di realizzazione la possiamo chiamare utopico-concreta, cioè qualcosa che non coincide con l’utopico-astratto. La ratio dell’utopia in questo caso corrisponde con un ottimismo militante. Quindi il contenuto dell’atto della speranza è, in quanto consapevole, la funzione utopica positiva; il contenuto storico della speranza, rappresentato in immagini, quindi immaginato, indagato in giudizi reali è la cultura umana orientata al suo orizzonte utopico concreto.

L’utopia va distinta sia dal fattore politico che con facilità la fa decantare in un’ideologia ma anche dall’utopismo o utopia astratta che la fa diventare semplice sogno non-concluso e quindi irrealizzabile. L’utopia in quanto corrisponde ad un desiderio di perfezione diventa anche un ideale; l’ideale supremo sin dai tempi di Platone è il Bene supremo che ancora non è.

La Repubblica
Platone, durante la sua vita, aveva assistito al conflitto e al logoramento reciproco delle due grandi forme di governo che si erano fino ad allora contese il dominio della polis: la democrazia e l’oligarchia (oligoi-archia). La prima aveva condotto Atene alla guerra e alla sconfitta nella guerra del Peloponneso contro Sparta. La seconda, preso il potere in seguito a quella sconfitta —sotto la guida di uno zio di Platone stesso, il “tiranno” Crizia— si era macchiata di crimini orrendi, finendo per venire travolta dopo pochi mesi dalla riscossa democratica. Ma, a sua volta, uno dei primi atti della democrazia restaurata era consistito nella condanna a morte di Socrate (399), sotto l’accusa di simpatie antidemocratiche.

Ad entrambe le forme di regime, Platone rimproverava in primo luogo di non aver governato in nome di tutta la città, e in vista della costruzione di una vita migliore per la comunità intera. La democrazia non era mai stata altro secondo lui che il dominio della massa dei poveri e degli ignoranti; l’oligarchia, la dittatura dei ricchi in difesa dei propri interessi. Entrambi questi regimi non potevano che sfociare nella tirannia, il potere di un solo uomo senza legge e senza giustificazione morale.

Ma la crisi di regime al cui interno egli visse, e alla cui luce elaborò la Repubblica, costituì certamente un terreno estremamente propizio per una riflessione radicale sulla natura del potere e sulla miglior forma di governo, che rappresenta il nucleo del suo dialogo.

Un buon governo deve essere esercitato da un piccolo gruppo di veri competenti, intellettualmente capaci di universalizzazione, cioè della comprensione del bene comune, e perfettamente disinteressati sul piano privato, quindi moralmente qualificati ad un potere di guida e di servizio, non di oppressione e sfruttamento.

Dove reperire allora quelli che Platone chiama le guide e i guardiani della città? A chi affidare il compito di governare la città, di educarla a perseguire nell’unità il bene comune, di farne il teatro dove ognuno può migliorare se stesso e insieme con gli altri costruire uno vita buona per tutti?

La risposta questo quesito costituisce il primo dei tre “scandali” che Platone propone nella Repubblica.

(1) I filosofi al potere. I mali politici non cesseranno mai, egli afferma, finché i filosofi non si impadroniranno del potere o finché coloro che lo detengono non diverranno filosofi. Si tratta, appunto, di uno “scandalo”, perché i greci del tempo di Platone consideravano i filosofi come personaggi bizzarri, astratti, con la testa fra le nuvole, magari innocui ma certo inetti a governare lo stato. Platone pensa però che solo i filosofi, quelli della sua scuola, possano detenere quell’insieme di conoscenza razionali che rendano sia legittimo sia efficace l’esercizio del potere. Si tratta di un insieme di saperi, non solo morali e politici, ma anche teorici e scientifici: tutti insieme essi costituiscono le premesse necessarie per accedere alla comprensione di quella idea del Bene che costituisce la saldatura fra moralità e razionalità, il punto focale di orientamento del pensiero e della prassi, dunque la conoscenza massima e indispensabile per i governanti.
(2) Le donne filosofe. Contro le convinzioni correnti del suo tempo (e non solo del suo), Platone ritiene che non ci sia nessuna ragione per la quale una donna, se opportunamente educata, non possa sviluppare le stesse doti intellettuali e morali di un uomo, e quindi accedere alle sue stesse responsabilità. Ma per questo è necessario che la donna sia liberata dalle cure familiari che tradizionalmente la rinchiudevano nello spazio ristretto dell’ oikos, la casa-famiglia. E questo snodo prepara il terzo e forse maggiore “scandalo” proposto da Platone nella Repubblica.
(3) Eliminazione della proprietà privata per i governanti. Finché i governanti disporranno di patrimonio e di effetti familiari privati, finché potranno cioè dire “questo è mio” di beni, di mogli e di figli, non sarà possibile che il loro potere sia davvero disinteressato e rivolto al bene comune. È dunque necessario estirpare la dimensione privata dalla vita della polis, o almeno di quella parte della polis che è destinata a guidarla e a custodirla. A questa parte non sarà consentito possedere beni privati né una famiglia. Al suo sostentamento provvederanno la comunità compensando i governanti con un salario per il servizio pubblico che essi rendono. Maschi e femmine si uniranno ogni anno, accoppiandosi secondo un sorteggio, per generare i figli. Ma nessuno potrà riconoscere i figli come propri: essi verranno immediatamente sottratti alle madri e allevati a cura dello stato. Ogni adulto considererà come proprio i figli tutti i giovani della generazione nata durante il suo periodo fecondo, e ognuno dei giovani di questa generazione considererà padri e madri tutti gli adulti della generazione precedente.

L’essenza del “comunismo” platonico consiste dunque nell’eliminazione simultanea, almeno per i governanti, della proprietà privata e della famiglia.

martes, 11 de noviembre de 2008

LEZIONE n. 4: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...

LEZIONE Nº 4


(11.11.08) Aula XXVII 3ª Ora: 10,20-11,05 4ª Ora: 11,10-11,55

MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della chiesa


Sviluppo a quale prezzo? (continuazione)


Per capire la situazione sociale ed economica attuale bisogna andare a rivedere alcune premesse.

Il rapporto tra ragione oggettiva e ragione soggettiva
Lettura consigliata:
Horkheimer Max, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, 1969, 2000.

Nella tesi di Horkheimer il concetto di progresso e quello di tecnica sono entrati in crisi nel momento in cui le forze economiche dominanti e la scienza, nella sua forma ideologica, hanno compresso e adoperato la ragione in modo strumentale. La crisi però non ha coinvolto solo gli scienziati e i tecnocrati ma minaccia a tutta l’umanità.

Il primo passo per capire la crisi è analizzare il concetto di razionalità che è alla base della società industriale e tentare di capire se la sua concezione non contenga elementi che possano viziarla in modo essenziale.

Due cose costatiamo: prima, che le forme di sviluppo tecnico attuali sono tante; però, allo stesso tempo, non tutta la gente ne può godere i frutti e poi nessuno si sente al sicuro. Basti pensare che nessuno di noi, semplici mortali, sicuramente ha voluto vedersi nell’attuale crisi economica e tuttavia, senza averla provocata, noi dobbiamo subirla e aiutare, con le tasse, a pagarla.


Si suppone che lo sviluppo tecnico serva al progresso dell’uomo, ma è qui il paradosso: l’uomo minacciato di essere disumanizzato da quello che dice di volerlo aiutare. In questo modo la ragione invocata a motivo del progresso è quella che distrugge la ragione stessa.

Ragione soggettiva
Alla ragione soggettiva interessa soprattutto il rapporto tra mezzi e fini. Essa non attribuisce molta importanza alla questione se gli scopi siano ragionevoli in sé.

La ragione soggettiva si oppone alla ragione oggettiva, quest’ultima esisteva già dai tempi di Platone e Aristotele, secondo questa concezione la ragione non esisteva nella mente delle persone ma anche nel mondo oggettivo. Si capisce subito che tale visione deve affermare l’esistenza di una ragione universale, superiore, della quale la ragione soggettiva è soltanto una sua espressione. La priorità nella r. oggettiva sono i fini, non i mezzi: il bene supremo, il destino umano, ecc.

La ragione oggettiva. sostiene che la ragione fa riferimento a un principio immanente alla realtà, mentre la r. s. la vede come una facoltà della mente.

La ragione soggettiva può essere intessa come la capacità di calcolare le probabilità e di coordinare i mezzi adatti con un dato fine.

La crisi della ragione inizia dunque quando si nega la sua oggettività o quando viene vista come un’illusione. Questa negazione porta a una formalizzazione della ragione. La separazione tra ragione e religione indebolì l’aspetto oggettivo della prima e a formalizzarla, come è evidente dell’Illuminismo.

Di conseguenza il pensiero, secondo queste teorie, può servire per qualunque scopo, buono o cattivo. Diventa uno strumento, ma non deve avere la pretesa di stabilire le norme della vita sociale o individuale. Così la ragione viene subordinata. Invece in filosofi come Socrate la ragione non era semplicemente uno strumento per regolare i rapporti tra mezzi e fini, addirittura li può stabilire.

La ragione soggettiva, vista nella sua formalità è adoperata dal positivismo per sottolineare la separazione dal contenuto oggettivo; nell’aspetto strumentale sottolineato dal pragmatismo, è messo in rilievo il suo piegarsi a contenuti eteronomi.

(a) Il pragmatismo ha come nucleo la dottrina che idee, concetti, teorie sono solo schemi o progetti d’azione, e che quindi sono veri solo quando ed in quanto hanno successo. È questa una dottrina che afferma che le nostre speranze sono esaudite e le nostre azioni hanno successo non perché le nostre idee sono vere, ma che le nostre idee sono vere perché le nostre speranze vengono esaudite e le nostre azioni hanno successo. La verità qui è sinonimo di probabilità o, meglio, di “calcolabilità”.
(b) Il positivismo ha la tendenza a prendere il posto del dogmatismo che attaccava nella religione; dimentica che la scienza naturale come concepita da loro è soprattutto uno strumento della produzione, uno dei molti elementi del processo sociale. La dottrina positivistica considera lo strumento “scienza” come l’automatico campione del progresso. Se Platone voleva mettere a capo del suo stato ideale i filosofi, i tecnocrati vorrebbero che la società fosse governata dagli ingegneri.
Come qualunque altro credo, la scienza può essere piegata al servizio delle più diaboliche forze sociali, e lo scientismo non ha vedute meno ristrette della religione militante.

Per il pragmatista conta un solo genere di esperienza: l’esperimento.

Quali sono le conseguenze del formalizzarsi della ragione?
1. I concetti quali giustizia, eguaglianza, felicità... perdono la loro radice intellettuale. Sono ancora scopi e fini, ma non esiste più nessuna entità razionale autorizzata a darne un giudizio positivo e a mettergli in rapporto con una realtà oggettiva.
2. Esiste solo un’autorità, cioè la scienza, intessa come classificazione dei fatti e calcolo delle probabilità.
3. Porta alla manipolazione delle idee e alla propaganda di bugie.
4. La trasformazione di tutti i prodotti —l’arte, la musica— in beni di consumo.

Ragione oggettiva
Indica da una parte, come essenza di essa, una struttura immanente alla realtà che di per sé impone in ogni caso specifico uno specifico tipo di comportamento, si tratti di un atteggiamento pratico o teoretico.


Osservazioni finali:
1. L’intelletto umano non è un’entità assoluta isolata e indipendente: è stato dichiarato tale solo in conseguenza della suddivisione sociale del lavoro e al fine di giustificare quest’ultima sulla base della pretesa costituzionale naturale dell’uomo.
2. Per essere un uomo intelligente non basta saper ragionare in modo esatto: intelligente è l’uomo la cui mente è aperta alla percezione di contenuti oggettivi, colui che sa vederne le strutture essenziali e renderle in linguaggio umano.
3. Finché la scienza non ritira le sue accuse, deve giustificare i propri principi fondamentali —soprattutto l’identità tra verità e scienza— e deve spiegare perché considera scientifici certi procedimenti.
4. Com’è possibile stabilire che cosa può essere chiamato a buon diritto scienza e verità, se tale determinazione presuppone a sua volta metodi idonei a stabilire la verità scientifica?
5. La ragione soggettiva è l’atteggiamento dello spirito che si adatta consapevolmente e senza riserve all’alienazione di soggetto e oggetto, al processo sociale di reificazione, per timore che altrimenti esso sfoci in irresponsabilità, arbitrarietà, e diventi un semplice giuoco d’idee. I sistemi odierni della ragione oggettiva rappresentano invece un tentativo di evitare che l’esistenza sia abbandonata alla mercé del caso cieco. Ma i difensori della r. o. corrono il rischio di non saper tenere il passo con gli sviluppi dell’industria e della tecnica, di difendere valori illusori e di dar vita a ideologie reazionarie. La ragione soggettiva tende al materialismo volgare, così la ragione oggettiva rivela un’inclinazione al romanticismo.
6. Il rapporto fra la concezione soggettiva e oggettiva della ragione deve essere considerato alla luce dei rapporti tra spirito e natura, soggetto e oggetto. C’è un’interdipendenza fra ragione soggettiva e ragione oggettiva. Falso non è l’uno o l’altro di questi due concetti, bensì l’ipostatizzazione di uno di essi a spese dell’altro. Quest’ultima è la conseguenza della contraddizione fondamentale insita nella condizione umana.
7. Dal momento in cui la ragione divenne lo strumento del dominio esercitato dall’uomo sulla natura umana ed extraumana, quindi quando nacque, essa fu frustrata nell’intenzione di scoprire la verità. Ciò dovuto al fatto ch’essa ridusse la natura alla condizione di semplice oggetto. Ma la ragione può essere più che natura solo rendendosi conto della sua “naturalità”.

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