miércoles, 3 de diciembre de 2008

LEZIONE N. 6: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...

[lezione non ancora corretta]
(Martedí, 25.11.08)/Aula XXVII 3ª Ora: 10,20 – 11,05 4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.

2. IL VANGELO DELLA VITA E LA TEOLOGIA DELLA NATURA

2.1 La visione «antiquata» del mondo e il «principio responsabilità»

La tesi sulla visione antiquata del mondo è una lettura critica della seconda e terza rivoluzione industriale, rispettivamente, quella che avviene con l'introduzione dell'elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio, e quella che è arrivata con l’avvenimento dei computer e con lo spazio cibernetico. Tratta dunque sulle metamorfosi dell’anima nell’epoca della seconda e terza rivoluzione industriale. La tesi è avanzata dal filosofo ed scrittore tedesco Günther Anders nel 1956.

Secondo Anders, la nostra illimitata libertà di creare sempre nuove cose ci ha portati a creare un tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra vita, seguendo di lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici.


Prometeo, il mito:

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dèi, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scuoiò e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formare due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra, Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dèi) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò.

Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano.

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efeso di fabbricare una donna di creta, ai quattro Venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermete. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni de Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato, Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoi gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso.

Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella: la prima di una lunga serie di donne come lei. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affligere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali. Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio.

Secondo G. Anders, gli uomini hanno fatto degli strumenti degni di grande stupore, come il gesto di andare a recuperare il fuoco degli uomini all’Olimpo, ma come Prometeo, hanno dovuto patire le conseguenze del loro gesto; con l’aprirsi del vaso di Pandora, si sono moltiplicati i mali nel mondo. Comunque rimane la Speranza che ha evitato il suicidio di tutti gli uomini.

Quindi lui chiama «dislivello prometeico» l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, distanza che si fa ogni giorno più grande.

È ben vero, dice l’autore, che possiamo fare la bomba all’idrogeno, ma non siamo in grado di raffigurarci le conseguenze di quel che noi stessi abbiamo fatto. E allo stesso modo il nostro sentire arranca dietro al nostro agire: con le bombe possiamo distruggere centinaia di migliaia di uomini, ma non compiangerli o rimpiangerli.

A causa del «dislivello prometeico» la nostra propria metamorfosi è in ritardo; la nostra anima è rimasta molto indietro in confronto al punto a cui è arrivata la metamorfosi dei nostri prodotti, ossia del nostro mondo.

«Vergogna prometeica»: è la vergogna che si prova di fronte all’“umiliante” altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi. È ciò che ci fa sentire antiquati.

«Fierezza prometeica»: consiste nel rifiuto di essere debitori di qualche cosa, persino di se stessi, ad altri.

«Orgoglio prometeico»: consiste nel dovere tutto, persino se stessi, esclusivamente a se stessi.

In certo qual modo Prometeo ha riportato una vittoria troppo trionfale, tanto trionfale che ora, messo a confronto con la sua propria opera, comincia a deporre l’orgoglio che gli era tanto naturale nel secolo passato e comincia a sostituirlo con il senso della propria inferiorità e meschinità. «Chi sono mai? —domanda il Prometeo del giorno d’oggi, il nano di corte del suo proprio parco macchine, chi sono io mai?».

Il desiderio dell’uomo odierno di diventare un selfmade man, un prodotto, va visto dunque su questo sfondo mutato: Non già perché non sopporta più nulla che egli stesso non abbia fatto, vuole fare se stesso; ma perché non vuole essere qualche cosa di non-fatto. Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (Dio, dèi, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati. C’è, dunque, uno «scambio tra fattore e cosa fatta», cioè tra creatore e creato.

Sembrerebbe che il punto centrale dell’attenzione della società non sia l’uomo in quanto creatore ma le cose che lui ha disegnato. Di conseguenza la libertà cambia i ruoli: libere sono le cose; mancante di libertà è l’uomo.

Infelice diventa l’uomo, perché quanto più numerosa e più complicata diventa la burocrazia dei suoi apparecchi, da lui stesso creata, tanto più vani diventano i suoi tentativi di restare all’altezza.

Arriva al punto di pensare ad una Human Engineering, una ingegneria umana, che possa superare il suo essere nato in modo determinato e non avere la possibilità di alcun cambiamento sostanziale della sua forma originaria.

Se l’uomo soffre di senso di inferiorità di fronte alle sue macchine, ciò avviene in primo luogo perché, nei suoi tentativi di adeguarsi alle sue macchine e di fare di se stesso una parte di questa o di quella macchina, deve constatare che egli costituisce una materia prima di pessima qualità.

(1) Ma ciò deriva appunto dal fatto che, invece di essere una reale materia prima, egli «disgraziatamente» è già morfologicamente fisso, perché è già preformato

Questo suo «essere modellato erroneamente» rappresenta il suo difetto capitale, quindi anche il motivo principale della sua «vergogna prometeica». Ma soltanto quello principale. Perché le deficienze di cui «si vergogna» sono numerose.

(2) Se il primo punto della vergogna è l’essere nato, quindi fatto erroneamente. La seconda inferiorità è dell’uomo nel confronto delle macchine è che si deteriora facilmente ed è escluso della «reincarnazione industriale», cioè: l’esistenza in serie dei prodotti.

L’uomo tenta attualmente di clonarsi per riuscire a perpetuarsi. Ma nel senso in cui stiamo parlando si può pensare che a nessuno è concesso la possibilità di sopravvivere a se stesso in forma di un nuovo esemplare, come alla lampadina elettrica, insomma, dobbiamo continuare a portare a compimento il tempo che ci è destinato in antiquata unicità. Noi siamo come si dice dei «pezzi unici».

Bisogna trovare una via di uscita a questi problemi. Una prima risposta la troviamo nella morale planetaria, di cui abbiamo già parlato. Ma pensiamo pure alla proposta di H. Jonas, sul principio-responsabilità.

Il principio responsabilità

Punto di partenza: La consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, o che questa si è indissolubilmente congiunta a quelle.

La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato con il suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più grande sfida che sia mai venuta all’essere umano dal suo stesso agire.

La visione etica di H. Jonas non cerca di argomentare soltanto sul destino umano, ma anche sull’immagine dell’uomo, non parla soltanto di sopravvivenza fisica ma anche di integrità dell’essere, l’etica che ha la funzione di salvaguardare entrambe.

Fa perno alla sua proposta il tema della responsabilità. Certo non è un fenomeno nuovo in ambito morale, ma nei giorni odierni la responsabilità diventa essenziale.

Il punto, dice Jonas, è che in seguito a determinati sviluppi del nostro potere si è trasformata la natura dell’agire umano, e poiché l’etica ha a che fare con l’agire, ne deduce che il mutamento nella natura dell’agire umano esige anche un mutamento nell’etica.

I poteri che ha in mente sono sempre quelli della tecnica moderna. Di conseguenza il suo primo obiettivo è domandare in quale modo questa tecnica influisca sulla natura del nostro agire modificandola, in quale misura essa renda, sotto il suo dominio, l’agire diverso da ciò che è stato nel corso di tutti i tempi. Poiché l’uomo, attraverso tutte queste epoche, non è mai stato privo di tecnica, il suo interrogativo verte sulla differenza umana della tecnica moderna da ogni tecnica precedente.

Se la novità del nostro agire esige un’etica nuova di estesa responsabilità, proporzionata alla portata del nostro potere, essa richiede, proprio in nome di quella responsabilità, anche un nuovo genere di umiltà: un’umiltà indotta, non dalla limitatezza, ma dalla grandezza abnorme del nostro potere, che si manifesta nell’eccesso del nostro potere di fare rispetto al nostro potere di prevedere e al nostro potere di valutare e giudicare.

Alcune osservazioni fatte da Jonas:
(1) Il confine tra polis e natura è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo un’enclave nel mondo non-umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto.
(2) Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente: include nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà.

(3) Il nuovo imperativo si rivolge molto di più alla politica pubblica che non al comportamento privato, che non è la dimensione causale alla quale sia applicabile. L’imperativo categorico kantiano era diretto all’individuo e il suo criterio era nel presente.

(4) Prima abbiamo «neutralizzato» la natura e poi anche l’uomo; ora tremiamo nella nudità di un nichilismo nel quale il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi.

La domanda è radicale: perché mai l’uomo ci dovrebbe essere?
Se vi aggiungiamo l’amore, la responsabilità viene elevata dalla dedizione della persona che impara a temere per la sorte di chi è degno di esistere e di essere amato. Quando oggi parliamo della necessità di un’etica della responsabilità futura intendiamo proprio questo tipo di responsabilità e di senso della responsabilità, non la vuota “responsabilità” formale di ogni agente per la sua azione.

Importante non dimenticare che soltanto chi detiene una responsabilità può agire in modo responsabile. Di fatto, Abele domanda: Sono forse il custode del mio fratello? Ma Dio non lo vuole accusare di irresponsabile ma di fratricidio.

L’uomo ci dovrebbe essere, secondo la tesi di Jonas, la moralità intessa in termini di responsabilità non è altro che il complemento morale alla costituzione ontologica della nostra temporalità. Detto in modo semplice, quello che noi siamo e abbiamo nel presente è legato a quello che hanno fatto i nostri predecessori e, quindi, quello che noi facciamo al presente avrà anche un influsso in quelli che verranno nel futuro: «il futuro non è meno ma neanche più “se stesso” di quanto lo fosse ogni epoca passata».

La responsabilità è anche correlata al potere: più potere ha l’uomo su una realtà più responsabilità ha su di essa. In questo modo quello che Kant diceva, cioè «puoi, dunque devi», diventa: «devi, dunque fai, dunque puoi», ossia, l’esorbitante potere dell’uomo deve manifestarsi anche a livello morale. Il respiro di un neonato rivolge a tutti noi un «devi» affinché ci prendiamo cura di lui. I restanti animali appena nati devono cercarsi da loro il proprio sostento, nel caso dell’uomo deve per forza essere alimentato. In questo caso il bambino neonato non «implora» all’ambiente («prendetevi cura di me»), e neppure si parla qui di compassione o misericordia, qui il dovere degli altri verso il bambino è immanente ed evidente.

Di conseguenza, il lattante con il suo dover essere, che si manifesta in ogni suo respiro, diventa il dover fare transitivo di altri che soli possono favorire costantemente la pretesa, consentendo che l’umanità possa realizzare il suo scopo (teleologia). La responsabilità dunque deriva dalla paternità/maternità dell’essere, della quale, oltre ai genitori di fatto, sono partecipi tutti coloro che aderiscono all’origine della procreazione, non revocandone il fiat nel caso proprio, quindi tutti coloro che si concedono alla vita; in breve, la famiglia umana. Di questo principio deve partecipare anche lo stato, chiamato ad assicurare la vita dei cittadini non la sua morte.

In conclusione, il sí all’essere è un reclamo dall’uomo in nome della totalità delle cose.

Facendo ricorso alla «nobile menzogna», di cui Parla Platone nella Repubblica, Jonas sostiene che questa potrebbe essere anche una via di uscita: se la verità sulla catastrofe ecologica, politica ed economica è dura da sopportare, deve venire in soccorso una buon menzogna. Ma poi aggiunge, che forse anche una verità terribile è in grado di entusiasmare, non soltanto i pochi ma in definitiva anche i molti. Queste ritiene sia la speranza migliore nei tempi bui. Come già accaduto del mito di Prometeo, insieme ai mali liberati da Pandora quando ha aperto il vaso che non doveva aprire, c’era anche la speranza, che disse una bugia agli uomini perché non si uccidessero, però qui la differenza, secondo Jonas, è che la speranza non mente agli uomini, ma dice la terribile verità della loro pazzia tecnico-industriale, cercando sempre lo stesso scopo: evitare loro suicidio.

2.2 La creazione

Nelle lezione precedenti abbiamo messo in rapporto i concetti uomo-natura. Il punto di partenza è stato la critica alla società moderna, industriale e tecnologica, nella sua forma ideologica, cioè quella che mette in pericolo all’uomo stesso e la terra nella sua totalità. Ma è stato un discorso più accentuato in senso filosofico. Ora nel cercare una via di risposta alla crisi ci siamo affidati alla tesi di H. Jonas, secondo la quale, un problema così grande ha bisogno di una risposta etica proporzionata, dunque ci vuole una etica della responsabilità e quindi anche una morale planetaria, perché è tutto il pianetta ad essere in pericolo. Ora vogliamo entrare in un discorso più teologico.

Di fatti il concetto di creazione mette in rapporto tre elementi, cioè: Dio-uomo-mondo.

La prima cosa che viene in mente è l’accusa secondo la quale è stata proprio la mentalità giudeo-cristiana una delle cause che ha provocato l’aggressione contra la natura [cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione, 93]. Da questa prima affermazione passano a collegare, in modo causale, la mentalità cristiana —tipicamente occidentale— con il degrado del Terzo Mondo, cioè i paese da loro colonizzati. Ma la questione, secondo me, è più complessa. Comunque il punto spinge certamente a chiarire due questioni: da una parte, il fatto che i miti biblici che raccontano l’origine della creazione non debbono essere ristretti al racconto della Genesi, quindi andrebbero completati con altri passi della Sacra Scrittura; da un’altra parte, si può dire che quella mentalità occidentale, che sotto l’influsso della mentalità tecnocratica e facendosi pure chiamare «cristiana», ha depredato e depreda la natura, non può che essere una falsa religione, quindi un’idolatria.


2.3 Il rispetto della natura nell’AT

La nostra tesi è che non si possa concludere un’antropologia depredatoria del dato biblico, anche se nessuno può negare che ci possa essere o che sia stato, lungo la storia, un utilizzo ideologico della visione giudeo-cristiana della natura e della creazione.

Questo fa pensare non a una lettura che circoscriva il tema biblico del rapporto uomo-natura-religione al solo libro della Genesi, bisogna legger il fenomeno nell’ambito complesso di tutta la storia della salvezza, come narrata negli altri testi biblici.

Il tema giudeo-cristiano del rapporto uomo-natura-Dio è complesso: passa dalla protesta di Giobbe fino alla creazione in Cristo di Paolo e Giovanni. Non si tratta di un rapporto pacifico, ma è un rapporto che, anche se visto negativamente, manifesta il rispetto della libertà delle parti. Quindi non è un caso che la lettera ai Romani, 8:19-22 parli di una liberazione del creato nella sua complessità: L' attesa spasmodica delle cose create sta infatti in aspettativa della manifestazione dei figli di Dio. Le cose create infatti furono sottoposte alla caducità non di loro volontà, ma a causa di colui che ve le sottopose, nella speranza, che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per ottenere la libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo, infatti, che tutta la creazione geme e soffre unitamente le doglie del parto fino al momento presente.

Il racconto mitico della creazione della Genesi e la sottomissione della natura che ivi si trova, non può spiegare da solo la complessità storico-salvifica del creato nel senso in cui lo troviamo nell’insieme dei testi biblici.

Quando la Genesi parla della sottomissione della creazione all’uomo lo fa in un modo preciso, dicendo che l’uomo è stato creato a immagine di Dio, affermando ciò si dice che l’uomo non può andare contro il proietto della creazione, se non nel caso in cui rompe la sua alleanza con Dio e la sua armonia con la natura. Il piano di Dio mettendo a capo della creazione all’uomo non può essere la distruzione della natura, anche se questa scelta supponga il rischio di una deviazione delle scelte da parte dell’uomo, in tal caso si dimostra proprio che si tratta di un essere libero.

Ma questa è solo una parte dell’analisi. Il piano della creazione ha come apice non l’Adamo dell’Eden, ma Gesù, che giustamente viene chiamato il secondo Adamo, che è pure un uomo ma che ha saputo riconciliare l’intera realtà intra-mondana.

In felice espressione di Moltmann la terra è di Dio. L’accentuazione non va messa dunque soltanto su Gn 1:26, dove l’uomo-immagine di Dio è chiamato a «dominare» il creato, ma su Gn 2:15, dove si dice che «il Signore Dio prese l' uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse». La signoria umana non può allora ridurre il mondo alla sua sola utilità ma deve rispettarlo e promuoverlo nella sua totalità e nella sua integrità: lo deve fare perché, prima di essere suo, il mondo è di Dio.

Il passaggio fondamentale della Genesi per capire la tensione-armonia tra Dio-natura-uomo è quello che parla sull’albero situato al centro dell’Eden.

Gn 2:8-9
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l' uomo che aveva modellato. Il Signore Dio fece spuntare dal terreno ogni sorta d' alberi, attraenti per la vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita nella parte più interna del giardino, insieme all'albero della conoscenza del bene e del male.

Quest’albero della conoscenza del bene e del male è al centro del giardino ed è pure il punto in cui uomo e donna si giocano la loro storia futura. È, possiamo dire il «luogo delle scelte»: la natura fa di luogo dell’incontro tra la libertà dell’uomo e quella di Dio.

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