jueves, 23 de octubre de 2008

PRONTI PER RIPRENDERE LE LEZIONI?

RIPRENDIAMO LE LEZIONI MARTEDÌ 11 E MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 2008.
BUON LAVORO E A PRESTO!

DON J. CHOPIN

miércoles, 22 de octubre de 2008

LEZIONE N.3: TEOLOGIA DELLA CITTA...


(22.10.08)
3ª Ora: 10,20 – 11,05/4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione

COMPLESSITÀ DEL FENOMENO URBANO

La città tra utopia e realtà storica

Approssimazione al concetto di città: tentativo preliminare

Villaggio

Bibliografia: U. Fabietti – F. Remotti (a cura di), Dizionario di antropologia. Etnologia, Antropologia culturale, Antropologia sociale, Zanichelli, Bologna 1997, 792-793; U. Colombo – G. Lanzavecchia (a cura di), La nuova scienza, vol. 1: Dalla tribù alla conquista dell’universo. Scienza, tecnologia e società, Scheiwiller, Milano 2000, 81-82.

Insediamento di dimensioni relativamente ridotte, i cui abitanti si riconoscono e agiscono come appartenenti a un’unità comune. Pertanto il termine indica un’entità sia territoriale, sia politica. In chiave evoluzionistica si può dire che è nel villaggio, dove si inizia a modificare l’ambiente, così si parla del passaggio dall’insediamento indefinito, non comportante una trasformazione dell’ambiente ecologico (grotte, ripari sotto roccia) all’insediamento stanziale, dove invece si riscontra l’intervento dell’uomo.

Gli elementi che determinano la varietà di modelli del villaggio dipendono da molti fattori: habitat naturale, rapporti con le popolazioni vicine, strutture familiari, tipo di economia, credenze religiose. Un villaggio normalmente ha un capo e una propria organizzazione (sociale, politica, religiosa, ecc.); anche nei casi attuali, in cui alcuni villaggi si trovano sotto la giurisdizione impostagli dall’organizzazione civile del paese in cui si trovano.

L’associazione tra i primi villaggi e le prime città della storia è nella «terra tra i due fiumi», dove vediamo che all’origine delle prime concentrazioni umane vi sono motivi di ordine economico, legati allo sfruttamento delle terre fertili, al traffico dei beni e agli spostamenti delle popolazioni; il Tigri e l’Eufrate sono, infatti, vie di comunicazione essenziali tra il Golfo Persico e il Mediterraneo [sull’idea di città nel mondo classico, cfr. L. Benevolo, La città nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 2007, 9-20].

Per villaggio globale, in sociologia, si intende il mondo contemporaneo, considerato come un unico villaggio grazie al potere unificante dei mezzi di comunicazione di massa. La locuzione originale inglese global village, è stata coniata dal sociologo canadese Marshall McLuhan (1911-1980).

Città

E. M. Tacchi, «Città», in A. Colombo (a cura di), Dizionario di dottrina sociale della chiesa. Scienze sociale e magistero, Vita e Pensiero, Milano 2004, 188-189.

Secondo W. Weber —de la scuola tedesca di sociologia— una città non si differenzia da un villaggio o da un paese solo per l’aspetto quantitativo, ma anche per l’aspetto qualitativo: la città non è dunque semplicemente un grosso borgo (→piccolo centro abitato; quartiere, sobborgo cittadino che si trova, o si trovava originariamente, in periferia, o fuori dalla cerchia delle antiche mura), ma un’entità storica che si qualifica come segno importante sul territorio. Essa può assumere diverse connotazioni (come centro industriale, commerciale, amministrativo, religioso, ecc.); la città esercita poi in ogni caso una qualche egemonia sul territorio in cui si colloca, particolarmente evidente nel caso delle capitali.

Invece la scuola sociologica di Chicago, con Wirth, chiarisce in forma definitiva che conviene parlare di città solo in presenza di una popolazione significativa, notevole, territorialmente concentrata e socialmente eterogenea: quindi l’immagine della “città di Dio” estesa a tutta la chiesa non sarebbe appropriata per mancanza del secondo requisito, così come l’immagine della “città della scienza” applicata ad un grande centro di ricerca andrebbe rifiutata per mancanza del terzo.

Alla radice del termine odierno città noi troviamo altri tre parole-chiavi: urbs, civitas e polis.

Urbs: è, in primo luogo, la città circondata dalle mura. Di fatto Urbs deriva da orbis che significa "circolo", "rotondità", da qui per esempio la parola orbita (di un pianeta) o urbe (mondo). L’espressione latina urbi et orbi si intende: «alla città (di Roma) e al mondo».

In questo senso la città non è una realtà naturale, ma è un’opera artificiale dell’uomo. La città rimanda, dunque, almeno in prima istanza, a un sistema materiale di costruzioni (case, fabbriche, chiese, strade, piazze, ecc.), dove prevale l’aspetto concreto, la dimensione fisica e tecnica. Della città, vista in questa prospettiva, si occupano discipline come l’architettura e l’urbanistica.

Civitas: Qui il senso della città è più ampio, non riguardo soltanto il senso fisico di una popolazione, ma anche l’organizzazione istituzionale dei suoi abitanti. La civitas, come realtà immateriale, sociale e culturale, è dunque oggetto di studio principalmente per le scienze umane: non è tanto un insieme di cose, quanto un insieme di persone e di gruppi, caratterizzati da una certa unità culturale. Così civiltà viene chiamato il risultato culturale da una civitas.

Polis: è il senso della città in quanto luogo più prossimo che interessa il bene comune e la gestione della cosa pubblica (la res publica). Politica è la parola che traduce l’interesse dei governanti per il bene della città. La politica, dunque, indica originariamente il governo della città, al quale partecipano tutti gli uomini liberi. Se, come nella antica Grecia, la città e lo Stato praticamente si identificavano, si spiega quindi perché oggi qualunque governo (locale, nazionale, globale) comporti la dimensione politica.

In conclusione, se l’urbs ci lega a un territorio concreto a cui apparteniamo e la civitas ci inserisce in una comunità, la polis ci invita a sentire la gestione della cosa pubblica come qualcosa che ci riguarda e che richiede la nostra partecipazione.

martes, 21 de octubre de 2008

LEZIONE n. 3: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...[TERZA LEZIONE]


LEZIONE Nº 3

(21.10.08) Aula XXVII
3ª Ora: 10,20 – 11,05 4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.



1. LA SOCIETÀ MODERNA: EREDITÀ E FUTURO
L’obbiettivo in questa parte è quello di capire in passaggio dall’età moderna all’età contemporanea passando per il concetto di postmodernità. Identificare gli elementi che hanno portato al mito dello sviluppo e come siamo arrivati alla situazione attuale.

Bibliografia: G. Colzani, Antropologia teologica. L’uomo: paradosso e mistero, EDB, Bologna 1988, 19972, 14-20; A. Llano, La nueva sensibilidad, Espasa, Madrid 1988, 75-91; L. Boff, «Modernità/Postmodernità», in V. Fabella – R. S. Sugirtharajah (edd.), Dizionario delle teologie del Terzo Mondo, Queriniana, Brescia 2004, 228-229; J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1985, 200516 [La condition postmoderne, Les Editions de Minuit, Paris 1979]; C. Dotolo, Un cristianesimo possibile. Tra postmodernità e ricerca religiosa, Queriniana, Brescia 2007, 17-49.


1.1 Sviluppo a quale prezzo?

Il concetto di modernità. Cosa si intende per modernità?

Non è possibile dare una definizione in poche righe di cosa sia la modernità, però qualche indicazione è necessaria. Nella visione dei teologi del Terzo Mondo per modernità s’intende il movimento storico e sociale che si è sviluppato nel sedicesimo secolo e ha avuto come soggetto principale la borghesia emergente, con il suo progetto di conquista economica, politica e culturale del mondo. Lo spirito della modernità si situa nella volontà di potere (dominio) basata sull’iniziativa individuale. La modernità ha infatti occidentalizzato il mondo, distruggendo le differenze, sottomettendo culture e razze, sfruttando sistematicamente le risorse della natura e rafforzando il patriarcato. La modernità ha creato la prima civiltà mondiale basata sulla tecnologia, la scienza e i valori occidentali.

Nel suo rapporto col cristianesimo la modernità è l’insieme di strutture sociali che si svilupparono dopo l’epoca confessionale e che divennero decisivi con l’illuminismo e l’industrializzazione. Il centro della modernità è la soggettività umana, pensata come indipendente da Dio e dal mondo, si salda cioè all’emancipazione umana e alla razionalizzazione di tutti gli aspetti della vita. M. Weber identifica quattro pilastri della modernità: (a) la funzione della scienza; (b) l’organizzazione capitalistica del processo economico; (c) la forma moderna dello stato; (d) l’ethos razionale della vita.

(a) Il rischio di un impoverimento, di uno svuotamento del senso della vita si fa grande là dove l’attività scientifica si separa sempre più da una finalità umana e rincorre una logica di efficienza che trova i suoi significati in se stessa, indipendentemente dalla persona.
(b) L’organizzazione capitalistica del processo economico mira a perseguire il vantaggio individuale nella convinzione che questo favorirà realisticamente il bene della collettività.
(c) La forma moderna dello stato pensa il potere politico sulla base dell’uguaglianza e della libertà dell’uomo: di conseguenza il potere sull’uomo non è dono di Dio né fatto di natura ma è il risultato di un contratto sociale. Il contratto è fondato sulla dignità della persona. Ma non sempre lo stato riesce a dare risposte alle domande esistenziali dell’uomo.
(d) Infine la modernità si lega a un ethos razionale, a una progressiva egemonia del soggetto razionale. Con Cartesio si incomincia a parlare di un’autocertezza, uno stare fondato su se stesso, a partire del pensiero illuminista si esalta la ragione autonoma contro ogni forma di dipendenza autoritaria e tradizionale, giunge al suo vertice nell’idealismo hegeliano che esalta lo Spirito assoluto, dal quale il reale è soltanto un momento. La conclusione è la nullificazione dell’oggetto e del reale, resi puro concetto, puro “fenomeno” totalmente disponibile alla ragione, puro prodotto linguistico.

Tutti questi elementi vengono introdotti sotto la categoria di progresso. Questa idea prevede il perfezionamento e il benessere dell’uomo. Ed è vero che sono stati raggiunti grandi risultati in tale senso. Ma il prezzo pagato in termini ecologici è stato devastante. Il progresso inteso in senso industriale e tecnico ha bisogno di ingenti quantità di energia, non sempre rinnovabile, e le scorie risultanti della produzione industriale non sempre sono facili da smaltire e riciclare.

Il risultato è che l’autoaffermazione dell’uomo, quale si è data nel contesto della modernità, è entrata in una fase di crisi e di ripensamento: la coscienza del tasso di irrazionalità e di violenza che accompagnano una razionalità strumentale impone una nuova ripresa dell’autoaffermazione dell’uomo.

Contraddizioni...
1. Il progresso aveva promesso ricchezza invece la povertà aumenta. Viviamo non soltanto in una società di classi, ma anche nelle cosiddette “società dei due terzi”. Società in cui due terzi della popolazione tengono il restante terzo al di sotto della soglia di povertà.
2. Con le scelte del presente, come risulta chiaro nell’attuale crisi economica mondiale, acquistiamo debiti che non riusciremmo a pagare e che vanno sulle spalle dei nostri figli.
3. Le società moderne hanno inventato una forma di difesa: il deterrente nucleare. Soltanto che questa forma di difesa può ucciderce tutti, cioè non difende nessuno.
4. La ricchezza prodotto dalla modernità ha impoverito irreparabilmente gran parte della natura.

...e paradossi della modernità
1. La modernità ha ridotto l’escatologia antropologicamente, argomentando che era possibile realizzare in terra il sogno della felicità eterna, ma così facendo la fa diventare utopia, cioè aspettativa profana ideologicamente strumentalizzata. La coscienza storica entra in conflitto con la coscienza utopica: il semplicismo ideologico viene smentito continuamente dalla complessità del dato storico. La visione della storia come progresso lineare, allontanandosi dal tempo vitale disperde il tempo storico. In questo senso la coscienza storica moderna genera, non solo il disinteresse per la storiografia, ma la coscienza di essere entrati in un periodo post-storico, nel quale niente realmente nuovo può accadere.
2. La scienza moderna è, anzitutto, una ricerca esperimentale della natura. Ma qui esperimento significa addomesticare l’esperienza stessa, nel senso che l’esperimento obbliga la natura a rispondere con un sì o con un no a domande formulate a partire da un quadro concettuale imposto per il soggetto conoscente. La realtà umana si riduce a ciò che l’uomo abbia di scientificamente oggettivabile. In questo modo l’uomo è misurato con lo stesso metro delle cose materiali e ridotto ad essere un frammento più o meno sofisticato di materia. Se l’uomo vuole seguire affermando la sua libertà e dignità il risultato è un antropomorfismo; è come se l’uomo diventasse una proiezione di se stesso.
3. «Ciò che si produce alla fine del XVIII secolo, al momento della prima rivoluzione industriale, è la scoperta della reciprocità: niente tecnica senza ricchezza, ma anche niente ricchezza senza tecnica. Un dispositivo tecnico esige un investimento; ma, dato che ottimizzare la prestazione cui è applicato, può anche ottimizzare il plusvalore che risulta da questa prestazione migliorata. Basta che il plusvalore sia realizzato, cioè che il prodotto della prestazione sia venduto. E possiamo completare il sistema nel modo seguente: una parte del prodotto della vendita è assorbito dai fondi di ricerca destinati a migliorare ulteriormente la prestazione. È in questo preciso momento che la scienza diviene forza produttiva, vale a dire un momento della circolazione del capitale» (Lyotard, p. 82).

miércoles, 15 de octubre de 2008

LEZIONE N. 2: TEOLOGIA DELLA CITTÀ...


(15.10.08)
3ª Ora: 10,20 – 11,05/4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione

In continuità con la lezione precedente, consideriamo il numero del documento missionario che parla chiaramente della missione in città:

Redemptoris Missio, n. 37b:
«Le rapide e profonde trasformazioni che caratterizzano oggi il mondo, in particolare il Sud, influiscono fortemente sul quadro missionario: dove prima c'erano situazioni umane e sociali stabili, oggi tutto è in movimento. Si pensi, a esempio, all'urbanizzazione e al massiccio incremento delle città, soprattutto dove più forte è la pressione demografica. Già ora in non pochi paesi più della metà della popolazione vive in alcune megalopoli, dove i problemi dell'uomo spesso peggiorano anche per l'anonimato in cui si sentono immerse le moltitudini. Nei tempi moderni l'attività missionaria si è svolta soprattutto in regioni isolate, lontane dai centri civilizzati e impervie per difficoltà di comunicazione, di lingua, di clima. Oggi l'immagine della missione ad gentes sta forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. È vero che la «scelta degli ultimi» deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e isolati, ma è anche vero che non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire, un'umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città».

Resta da domandarsi per quale motivo, nonostante l’evidente emergenza delle città, la teologia cattolica abbia dedicato così poco spazio nelle sue analisi al fenomeno dell’urbanizzazione.

La città, sfida alla missione e alla pastorale della chiesa

La città? Cosa ci può dire il teologo su questo argomento? Queste sono le domande che Comblin si pone all’inizio del suo scritto e pure noi ci facciamo davanti alle costatazioni fatte in precedenza sul fenomeno dell’urbanesimo e l’emergenza della città come ambito della missione.

Quali sono le cause che hanno portato a questo oblio della città da parte della teologia?:
(1) San Tommaso scrisse un commento alla Politica di Aristotele [in In libros Politicorum Aristotelis expositio, Marietti, Torino 1951], ma la sua morte non gli permise di completar tutta la sua teologia riguardo alla polis. Lui però era arrivato all’idea che l’uomo è un essere politico per natura [spiegare “politico”], cioè fatto per vivere in una città, in una polis. E riprende gli argomenti di Aristotele per spiegare come, nonostante questa natura, vi siano uomini che non vivono in una città. Una prima causa, dunque, la non completezza del lavoro di Tommaso che avrebbe motivato in modo migliore i teologi moderni;
(2) Una seconda causa è la separazione avvenuta con l’avvento dell’Illuminismo, tra vita cristiana e realtà profane. L’urbanesimo è figlio del Rinascimento e non potrebbe credere che la teologia possa avere un rapporto con la sua arte. Ma anche la chiesa ha presso le distanze e si è distaccata delle realtà terrene. La distinzione tra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale finiva per consacrare uno stato di fatto della società occidentale: la rottura tra fede e l’azione temporale. C’è stata una sorta di rassegnazione da parte della teologia nel limitare il suo lavoro a quello che riteneva il soprannaturale;
(3) Il silenzio dei padri della chiesa sulla teologia della città. Il caso più conosciuto, quello di Agostino, ci fa capire che nella mentalità dei Padri, il fenomeno urbano non era visto nella sua fenomenologia sociale; Agostino per esempio, come ricorda Comblin e anche Ratzinger nella sua tesi, quando parlava della civitas Dei, non pensava minimamente a una «città» di Dio. Né pensava con questo tema spiegare il tema della chiesa locale. Pensava piuttosto alla chiesa universale:
«La peculiarità del popolo di Dio consiste ora nel fatto che esso stesso è res Dei attraverso il suo sacrificio, cosicché, con altre parole, in questa comunità il populus è la res di quel Dio cui esso non offre sacrifici rituali, e il cui olocausto è piuttosto se stesso. Anche senza questo tratto di congiungimento, del tutto evidente, con quanto presentato sopra, potremmo dire che, come la civitas Dei, così il populus Dei, in quanto comunità in cui consiste questa civitas, è identico alla chiesa poiché si tratta del populus peregrinans, cioè di quella parte dei santi di Dio che vien chiamata dall’insieme degli uomini. La natura di questo popolo consiste nell’essere sacrificio del Dio vivente mediante la caritas, nel corpo di Gesù Cristo» [cfr. J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1971, 20052, 287-288].

Qui c’è una visione ideologica della città, nel senso che è vista più a partire delle proprie idee cristiane che non nella sua realtà materiale e storica. Quindi si parla della «città cristiana» e non più semplicemente della «città». Comunque su questo bisognerà ritornarci a parlare con più calma.

La città della teologia missionaria di Johannes Hoekendijk.
È un fatto che l’uomo moderno e, naturalmente, l’uomo contemporaneo abitano delle città.

Il giudizio di questo missionologo è duro contro la dimenticanza che la chiesa ha fatto delle città:
«Quando si è collocata la prima pietra per la costruzione delle moderne città industriali, la chiesa era assente alla cerimonia. Nelle nuove città la chiesa è un “Giovannino-arrivato-in-ritardo”, che si è presentato solo dopo che questa nuova giovane società aveva scelto e sperimentato la sua politica» [J. Ch. Hoekendijk, The Church Inside out, SCM Press, London 1967, 109-122].

È bene per la chiesa che la gente delle città si sia accorta che poteva vivere anche senza la chiesa?

Se dice che Benjamin Disraeli aveva distinto “due nazioni” che stavano l’una accanto all’altra e si contrapponevano: da una parte “i rispettabili” riuniti attorno al trono e all’altare; e dall’altra i “poveri” riuniti attorno al magico regno della fabbrica. Naturalmente i primi e la chiesa hanno subito pensato che c’erano tutte le ragioni per catalogarli come i “poveri irreligiosi”.

Si racconta inoltre che un vescovo, un certo giorno manifestò la paura che la chiesa avrebbe perso la città; Disraeli, gli rispose subito che non si preoccupasse, perché la chiesa non aveva niente da perdere, giacché non aveva avuto la città (industriale si intende) [cfr. G. Coffele, Johannes Christiaan Hoekendijk, 144].

Secondo Hoekendijk la chiesa, nell’affrontare la sfida della città, ha sbagliato tattica. Essa continuerebbe a chiamare la città verso di sé. Ma qui non si tratta di richiamare, ma di andare fuori, cercare, trovare. Bisogna andare al di là della strada! Gli emarginati sono vicini a noi.

Non sarebbe stata la città ad abbandonare la chiesa ma la chiesa la città. Nelle città tante volte ciò che separa due mondi, i quartieri residenziali dai quartieri periferici e poveri, è una semplice strada.

Si ricorda, infine, una delle chiavi di lettura della pastorale in città è la costante mobilità dei suoi abitanti, e qui bisogna capire che il concetto di parrocchia deve essere intesso in modo più dinamico e addirittura dovrebbe essere ripensato per gli ambienti delle megalopoli: «Noi abbiamo alzato un tempio invece di dieci tende. E noi abbiamo indicato i confini della zona del tempio (quartiere parrocchia). La missione in città non può tollerare una simile immobilità» [G. Coffele, Johannes Christiaan Hoekendijk, 145].

La sfida. Il futuro della missione si gioca in città.

Bibliografia: A. Davey, Cristianismo urbano y globalización. Recursos teológicos para un futuro urbano, Sal Terrae, Santander 2003 [Urban Christianity and Global Order, SPCK, London 2001]; A. Autiero (a cura di), Teologia nella città, teologia per la città. La dimensione secolare delle scienze teologiche. Atti del Convegno «Teologia nella città – teologia per la città. Sulla dimensione secolare delle scienze teologiche» Trento 26-28 maggio 2004, EDB, Bologna 2005.

· Il movimento cristiano è nato e si è sviluppato in ambienti urbani. La chiesa, senza trascurare gli ambienti rurali, deve recuperare le sue origini e dare priorità alla teologia della città e alla pastorale urbana.
· In città è ancora più prioritario che mai rispondere alla domanda: chi è il mio prossimo?
· L’emigrazione postcoloniale porta il globale alla porta di casa. La teologia della città deve riuscire a integrare globale e locale, questo la porta ad un inevitabile incontro di culture e religioni.
· Gli strumenti: (1) L’utilizzo della tecnologia informatica; (2) l’analisi sociologica e antropologica; (3) creazione di nuovi ministeri e gruppi di apostolato che rispondano alle nuove esigenze. La teologia della città dunque non è semplicemente realizzata da uno specialista che fa teologia a tavolino, ma richiede di un’interazione con la comunità.
· Davanti ad una società che soffre di una delusione escatologica (Blumenberg) e della paura del diverso (Bauman), la teologia della città da priorità al tema della speranza e della compassione.
· Per la religione, e per i cristiani, nasce il problema di una «nuova localizzazione», che tenga conto della perdita degli antichi e non più ritrovabili «luoghi», che con la fine della modernità e l’avvento della società globale sono diventati incerti e sfuggenti. Si tratta di riscoprire la dimensione itinerante della fede, propria di ogni cristiano, secondo ciò che, molti secoli fa, diceva il testo A Diogneto: «ogni terra è patria, ma ogni patria è straniera».
· Come dimostrano gli esiti attuali dell’economia di mercato, non solo la chiesa ha perso la sua «sovranità» davanti allo Stato, ma anche lo stato ha perso la sua «sovranità» davanti alla «sovranità» del mercato. La società post-moderna si collocava ancora all’interno della sovranità dello Stato, la società globale si situa all’interno della sovranità del mercato: la sovranità dello Stato appare ormai un «mito», se non un’illusione.
· La chiesa nella città diretta dal mercato, dunque, non ha più un interlocutore, come l’aveva nella società laicista dove, per lo meno, veniva attaccata e quindi aveva una sua visibilità. Il mercato non ha dei nemici ma concorrenti. Questo costringe alla chiesa a vedersi più come una realtà policentrica, meno centralizzata, che mette in interazione l’istituzione con i suoi carismi. La città diventa il luogo dell’apprendistato dell’amore.
· Da evitare: (1) il puro conservatorismo; (2) la fuga spirituale; (3) l’autosufficienza della comunità cristiana.
· Quale sarebbe il piano pastorale più adatto per una città?


Esercizio con gli studenti:
Il gioco dei correlati, relazionare parole:

città – villaggio
globale - locale
secolare - religioso-sacro
moderno - postmoderno
urbano - rurale
sviluppo - povertà
visibile - anonimo-invisibile
vita - morte
pluralismo - relativismo
favela - zona marginale

· Piccolo elaborato:
(a) Trovare le differenze tra i concetti seguenti: città, villaggio, metropoli, megalopoli e area metropolitana;
(b) Dati della città più popolata del tuo paese: numero di abitanti; religioni in percentuali; uno dei principali problemi sociali che deve affrontare attualmente e, infine, un aspetto positivo che ci trovi.
· RAI: Megalopolis.


COMPLESSITÀ DEL FENOMENO URBANO

La città tra utopia e realtà storica
Approssimazione del concetto di città: tentativo generale
Non è facile definire il concetto città. Forse non è nemmeno possibile, in tutta la sua complessità, soprattutto se consideriamo che il processo di urbanizzazione nel mondo, in particolare nei paesi emergenti del Terzo Mondo, non è ancora chiuso e sembra non fermarsi. Di conseguenza è meglio parlare di un’approssimazione al concetto di Città, tentando di descrivere quelle caratteristiche storiche del fenomeno, lo stato attuale del fenomeno e le sue tendenze. Perciò penso sia fondamentale un doppio approccio: da una parte, bisogna lasciarsi aiutare dalla visione sociologica ed antropologica della città; da un’altra parte, bisogna pensare che la concezione che noi possiamo avere della città dipende molto delle diverse concezioni che, lungo la storia, gli uomini hanno avuto di essa. La visione cristiana deve trovare un posto in una tale visione storica. Quindi, solo gradualmente si può capire il complesso fenomeno delle città. I termini —e la loro specifica caratterizzazione— che fanno punto di riferimento penso che siano tre: il villaggio, come luogo “classico” della visione tradizionale, appunto, la città, come insediamento organizzato in dialettica con la visione tradizionale, e infine, la megalopoli, come superamento-degenerazione del concetto di città.

lunes, 13 de octubre de 2008

LEZIONE n. 2: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...

LEZIONE Nº 2

(14.10.08)
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.


b) TEOLOGIA DELLE REALTÀ TERRESTRI

I diversi aspetti di cui ci occuperemmo in questo corso li affrontiamo nella prospettiva della teologia delle realtà terrene. Bisogna capire però, cosa si intende quando si parla di realtà terrene, meglio ancora, noi dobbiamo situare nell’insieme del dibattito teologico questa teologia delle realtà terrene.

Pensiamo la genealogia della teologia delle realtà terrene è nata nel dialogo critico con la teologia dialettica di K. Barth —in modo particolare come è presentata nella La lettera ai Romani, nella quale possiamo notare un netto distacco tra le realtà mondane e il suo creatore. Questa chiara separazione voluta da Barth diventa più sfumata nella sua Dogmatica Ecclesiale, in essa la separazione non è così forte come nel suo scritto sulla Lettera ai Romani, allora la sua dialettica si orienta verso una teologia della parola.

Gibellini (citando Dembowski) offre una sintesi che a noi risulta utile per capire il perché si sia arrivati ad una teologia delle realtà terrene:
«nel periodo dialettico dell’Epistola valgono le seguenti affermazioni centrali: (a) Dio è Dio, e non è il mondo; (b) il mondo è mondo, e non è Dio, e nessuna via conduce dal mondo a Dio; (c) se Dio incontra il mondo —ed è questo il grande tema della teologia cristiana— questo incontro è Krisis, è giudizio, è un toccare il mondo a guisa di tangente, che delimita e separa il mondo nuovo dal mondo vecchio; — nel periodo della Dogmatica vanno prendendo consistenza le seguenti affermazioni centrali: (a) Dio è Dio, ma è Dio per il mondo: al Dio che è il totalmente Altro subentra la figura di Dio che si fa vicino al mondo; (b) il mondo è mondo, ma è un mondo amato da Dio: si passa dal concetto dell’infinita differenza qualitativa ai concetti di alleanza, riconciliazione, redenzione, come concetti-chiave del discorso teologico; (c) Dio incontra il mondo nella sua Parola, in Gesù Cristo: ne consegue la concentrazione cristologica che subentra all’impostazione escatologica del periodo dialettico» [R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, 27-28]

Il confronto teologico con la teologia dialettica del mondo protestante porta poi a parlare di una teologia della storia, intessa in diversi modi a seconda degli autori che noi qui avremmo in considerazione. Già prima la teologia dialettica si era scontrato con la teologia liberale (von Harnack), che privilegiava il metodo storico-critico.

Pannenberg —anche lui protestante— ad esempio la pensa diversamente. In una sua intervista concessa al Mondin spiega in quale modo il suo pensiero sia diverso per certi versi a quello di Barth:
«Ancor oggi mi sento legato a Barth sotto molti punti di vista. Il suo grande contributo è consistito nel fatto che egli ha sviluppato la teologia muovendo da Dio, muovendo dal concetto della sovranità di Dio. Sotto questo punto di vista mi sento ancora molto vicino a Barth sebbene io ritenga che il processo vada poi portato avanti in maniera completamente differente rispetto a quanto non abbia fatto Barth. Barth pensava di poter esprimere attraverso la sua teologia la sovranità di Dio in contrasto con il mondo terreno. Io, al contrario, penso che ciò non sia possibile. A mio parere un risultato del genere si può ottenere solo considerando il mondo come creazione di Dio» [B. Mondin, Dizionario dei teologi, Studio Domenicano, Bologna 1992, 452].

Pannenberg cerca di leggere in modo diverso il concetto di rivelazione, mentre in Barth si parla di autorivelazione, concetto fondato sulla rivelazione di Cristo, esclusa ogni ingerenza di cognizioni «naturali», extrateologiche ed extracristiane, in Pannenberg, la diretta autorivelazione di Dio non trova la sua giustificazione negli equivalenti biblici del termine «rivelare». Al posto di una autorivelazione diretta di Dio, oggettiva, il teologo propone l’idea di una autorivelazione indiretta, nello specchio del suo agire nella storia. La totalità del suo parlare e del suo agire, la storia operata da Iahvé, mostra indirettamente chi egli è. Soltanto tenendo presente quale significato riveste questo automanifestarsi indiretto di Dio per la totalità della storia della tradizione israelitica, apocalittica e cristiana primitiva, solo allora hanno il loro pieno valore oggettivo le affermazioni negative sulla mancanza o la recessione della concezione di una autorivelazione diretta [cfr. W. Pannenberg – R. Rendtorff – T. Rendtorff – U. Wilckens, Rivelazione come storia, Dehoniane, Bologna 1969, 39-57; studio sull’autore: Gibellini Rosino, Teologia e ragione. Itinerario e opera di Wolfhart Pannenberg, Queriniana, Brescia 1980].

Come ci ricorda Pannenberg, il concetto di rivelazione è collegato a quello di comunicazione. Parla dunque delle possibilità e delle aporie a cui può condurre la correlazione tra rivelazione e comunicazione, autorivelazione e autocomunicazione:

«Se si volesse considerare come rivelazione la autocomunicazione indiretta, propria di ogni singola azione di Dio, avremmo allora tante rivelazioni quante sono le azioni e gli avvenimenti nella natura e nella storia. Così però non si rende ragione del senso rigoroso di rivelazione intesa come autorivelazione di Dio. Quindi si può solo considerare quale rivelazione di Dio la totalità dell’agire di Dio, che nel caso in cui si tratta dell’unico Dio, corrisponde alla totalità di tutti gli avvenimenti» [W. Pannenberg – R. Rendtorff – T. Rendtorff – U. Wilckens, Rivelazione come storia, 53].

Ora dice Pannenberg:
«una singola azione di Dio, un singolo avvenimento può certo gettare luce indirettamente sul suo autore, ma non può essere piena rivelazione dell’unico Dio. Non possiamo abbracciare con lo sguardo la storia in tutto il suo complesso, come se fosse già conclusa. Anche se si desse questo caso, sembra che nella smisuratezza della storia universale e nel suo incessante fluire non sia possibile un solo avvenimento che abbia un significato assoluto, quale la fede cristiana trova nella sorte di Gesù Cristo» [cfr. W. Pannenberg – R. Rendtorff – T. Rendtorff – U. Wilckens, Rivelazione come storia, 57].

Nel dare una risposta a questi punti il teologo sviluppa le seguenti tesi:
(1) L’autorivelazione di Dio, secondo le testimonianze bibliche, non è avvenuta direttamente —ad esempio alla maniera di una teofania— ma indirettamente, attraverso le gesta storiche di Dio. (2) La rivelazione non ha luogo all’inizio, ma alla fine della storia rivelatrice. (3) A differenza di particolari apparizioni della divinità, la storia-rivelazione (Geschichtsoffenbarung) è aperta a quanti hanno occhi per vedere. Essa ha carattere universale. (4) La rivelazione universale della divinità di Dio non è ancora realizzata nella storia di Israele, ma soltanto nella sorte di Gesù di Nazareth, in quanto ivi si realizza anticipatamente la fine di tutti gli avvenimenti. (5) L’avvenimento di Cristo rivela la divinità del Dio d’Israele non come evento isolato, ma soltanto in quanto è parte della storia di Dio con Israele. (6) Nello sviluppo di concezioni extragiudaiche della rivelazione nelle chiese cristiane d’origine pagana, si esprime l’universalità dell’automanifestazione escatologica di Dio nella sorte di Gesù. (7) La parola è in rapporto con la rivelazione come predicazione (Vorhersage), come direttiva (Weisung) e come relazione (Bericht) [W. Pannenberg – R. Rendtorff – T. Rendtorff – U. Wilckens, Rivelazione come storia, 163-195].

Da parte cattolica Gustave Thils ha tentano non solo una teologia della storia ma addirittura una teologia delle realtà terrene; e a nostro giudizio, questo è stato il passo immediatamente anteriore che ha preceduto la riflessione teologica di questioni ancora più specifiche quali: la politica, la cultura, l’economia, l’ecologia, ecc., che sono temi che emergono nella teologia politica e nelle teologie del Terzo Mondo [cfr. Thils Gustave, Teologia delle realtà terrene, Paoline, Cuneo 1951 (Catholica, 13) - Originale: Théologie des réalités terrestres: Préludes, Desclée de Brouwer, 1946].

Le pagine del suo testo, dice Thils, «avranno unicamente per oggetto l’“incarnazione” dello spirituale cristiano» (Thils Gustave, Teologia delle realtà terrene,p. 6).

E non teme che la sua proposta sia vista come tropo orientata verso la terra in un’epoca in cui è messa in dubbio l’esistenza di Dio. «Dio —dirà— è senza dubbio la grande Realtà che deve prendere il cuore del cristiano... Ma il cristiano si trova egualmente in presenza del mondo» (p. 9). Di conseguenza la vita cristiana è «innanzi tutto teocentrica, ma non si disinteressa della terra» (p. 11).

Recependo il pensiero di Giacomo Maritain [in particolare Umanesimo integrale, Studium, Roma 1946] che propone la reintegrazione dei valori profani in una prospettiva cristiana, in virtù della diffusione e della incarnazione istituzionale d’un pensiero unitario, cioè di una concezione totale della vita e del mondo secondo Cristo: «Ridurre all’unità il dualismo mondo-Dio; ristabilire una nuova e sana armonia tra il Cristo e l’Umanità; restaurare l’unione della religione con la vita, tale sembra il significato primo e fondamentale dello sforzo oggi compiuto ai fini di una teologia delle realtà terrestri» (p. 31).

I cristiani che fanno astrazione dal mondo, aggrappandosi unicamente, esclusivamente alle realtà invisibili e celesti se sono malati “d’angelismo” e se fossero contemplativi autentici, non avremmo nulla da dire, poiché adempirebbero nel mondo ad un ufficio elevato e insostituibile: «Tutti questi cristiani non hanno abbastanza compreso il cristianesimo; non hanno compreso che la loro visione dualista del mondo è ingiustificabile tanto in teoria quanto in pratica. E questa lacuna non è il più piccolo peccato d’omissione che oggi si deve stigmatizzare» (p. 33).

Anche se il linguaggio dell’autore, come accadrà anche in GS, resta molto legato al linguaggio agostiniano sulle due città, terrena e celeste, lui invece ritiene che «Per comprendere il valore d’una teologia dogmatica delle realtà terrestri è indispensabile collocarsi nelle prospettive universali totali, cosmiche» (p. 46). È lo Spirito Santo che infonde al mondo l’unità e la carità in prefigurazione autentica dell’unità che regnerà nella città di Dio, quando Dio sará tutto in tutti. Infine Egli diffonde sentimenti di cattolicità e di universalità, perché la città terrena, benché temporale e transitoria, deve essere il preludio della Gerusalemme celeste. In somma la nostra azione temporale ha, in un certo senso, valore d’eternità» (p. 47).

Thils arriva dunque alla conclusione che «non esiste ancora una vera “teologia” delle realtà terrestri» (p. 53).

Per l’autore ogni creatura è oggetto della teologia dogmatica in quanto ha con Dio una relazione fattaci conoscere dalla rivelazione (cfr. p. 56). Per costituire una teologia delle realtà terrene, dunque, non basta che sia riconosciuto il rapporto di questa col cielo e con Dio; bisogna ancora che la rivelazione ci dica qualche cosa a loro riguardo (cfr. p. 60).

È questa sicuramente la principale difficoltà rilevata da Thils, per costruire una teologia delle realtà terrene: bisogna giustificare teologicamente il rapporto di queste cose concrete con il dato della rivelazione. Perciò l’autore ricorda che se c’è una teologia dell’uomo, che è anche una realtà intramondana, è possibile parlare di una teologia dei valori collegati a lui: «Se esiste una rivelazione formale riguardante l’uomo concreto, esiste una rivelazione formale implicita forse e oscura, ma reale, concernente tutti i valori terreni che hanno rapporto con lui. I prolungamenti omogenei della rivelazione, le applicazioni dirette e immediate, non le tolgono il suo carattere “formale”» (p. 68).

In conclusione, dice Thils, anche se possiamo solo abbozzare a grandi linee l’“immagine ideale” del mondo profano (cfr. p. 84), comunque «si può parlare con tutta verità della redenzione degli uomini, della redenzione delle intelligenze, della redenzione delle società e della cultura. Dal punto di vista del Cristo, l’opera della creazione, quella dell’elevazione e quella della redenzione è tanto universale quanto si può immaginare» (p. 87).

Il suo metodo parte della struttura “Spirito-Materia” che si trova nel NT sotto l’espressione “Spirito-Carne”, Πνευμα-Σάρξ. Questo è il punto di vista fondamentale che secondo l’autore governa tutta la sua esposizione teologica (p. 91).

L’altro problema che affronta l’autore è il pericolo di ridurre il profano alla visione cristiana, ma avverte che non si tratta semplicemente di sostituzioni: «Le realtà terrene debbono rimanere autenticamente “terrene”, ma perfezionate e disciplinate in dipendenza dei valori celesti» (p. 94).

La risposta la trova Thils nell’umanesimo integrale di Maritain, dove sacro e profano si possono integrare.

Giustamente ricorda l’autore che a partire di Kant la religione è stata confinata nella ragione pratica; in questo modo si incomincia a sentire con più forza la separazione tra ragione e fede, questa separazione che ha avuto anche un effetto nella teologia: «Si è costituita una teologia simile alla filosofia che è stata descritta: separata dai valori terreni» (p. 135).

Ora, mancare di “teologia dei valori terreni” —dice l’autore— è una grave lacuna: «una teologia, in-vero, deve essere una sapienza vera, e non solamente una scienza decifrabile da alcuni iniziati che si sono stabiliti fuori della vita quotidiana» (p. 137).

È chiaro che a un certo punto, anche Thils crede che sia la chiesa, «società visibile», uno strumento di progresso, non soltanto per gli individui, ma per le comunità umane nella loro ascesa verso il termine della loro perfezione. Essa, come Cristo e lo Spirito, esercita un influsso di irradiazione temporale: «Così, col pensiero e col culto, la chiesa aumenta la densità ontologica, la perfezione reale delle società umane, e fa di esse, per la gloria del Signore, un’immagine sempre più perfetta della Trinità, un preludio della Città di Dio, una prefigurazione della Gerusalemme celeste. Così vivono e così vivranno le città carnali» (p. 160).

Evidentemente nel caso anteriore il tema del pluralismo religioso non era ancora emerso. Attualmente l’affermazione della chiesa come mediazione dell’ideale delle realtà «celeste» entra in dialogo critico con la visione pluralista e multiculturale della società contemporanea.

Anche Thils si aspettava che la cultura divenisse, per l’opera dello Spirito e della chiesa, sempre più cristiana, anche se mette le virgolette alla parola «cristiana». Attualmente si può dire che una società possa diventare più «cristiana», ma ormai non è un fatto scontato. Il dialogo con le altre religioni è una esigenza del momento storico.

Molte cose potrebbero essere discutibili nella proposta di Thils. Il suo linguaggio ad esempio: tante volte ricorda la terminologia agostiniana sulla città di Dio (cfr. p. 175). O la sua visione dell’uomo come dominatore del mondo: «ogni volta che aumenta il suo potere sul mondo e il suo dominio sull’universo, l’uomo può dire a se stesso che egli collabora col Cristo nel tempo che partecipa all’attività terrena del Signore» (p. 180).

Ad ogni modo quello che ci interessa, resta il fatto che in seguito a questi dibattiti è venuta fuori una nuova elaborazione teologica più specificamente legata a fenomeni e situazioni sociali, storiche, politiche e culturale. Dalla fine degli anni 60’ emergono: la teologia politica, la teologia della liberazione, la teologia nera, la teologia india e dell’inculturazione, la teologia femminista, la teologia del terzo mondo, la teologia ecumenica, la teologia delle religioni.

Attualmente si parla di salvezza integrale, ciò vuol dire che la chiesa intende la sua missione come un’opera di salvezza aperta a tutti gli uomini e tutto l’uomo nella sua complessità: «La chiesa, immersa nella storia, non realizza una missione di salvezza se questa (intessa come liberazione integrale) non avviene anche nella storia». Possiamo dire dunque che l’attività missionaria abbraccia tutte le iniziative a favore della giustizia, della pace, e della solidarietà: «Non le considera aspetti o elementi periferici della sua missione, ma testimonianza essenziale della medesima. Queste realtà diventano così parte essenziale della costante progettualità pastorale delle chiese» [ODORICO Luciano, «Missione e pastorale», in DAL COVOLO Enrico – TRIACCA Achille (a cura di), La missione del redentore. Studi sull’enciclica missionaria di Giovanni Paolo II, Elle Di Ci, Torino 1992, 208].

Molte di queste nuove tematiche teologiche sono state accolte soprattutto Nell’Enciclica Evangelii Nuntiandi.



c) EVANGELII NUNTIANDI, UNA VISIONE INTEGRALE DELLA MISSIONE [INTRODUZIONE AL PENSIERO DI HOEKENDIJK]

Dieci anni dopo la promulgazione del decreto Ad Gentes, viene pubblicata l’Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi, forse il documento più importante del XX secolo. Di fatti continua ad essere il documento conciliare più citato. Il documento raccoglie tutto il materiale che i padri hanno elaborato per il Sinodo episcopale del 1974.

Per quello che riguarda il nostro interesse è da notare l'importante concretezza con cui il documento si apre al mondo.

Il documento è indirizzato «non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità» (n. 1). L’obiettivo del documento è quello di «rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo» (n. 2).

È sottolineata la centralità del Regno di Dio: «Solo il Regno di Dio è dunque assoluto e rende relativa ogni altra cosa» (n. 8). Nucleo e centro della Buona novella è la salvezza, che viene intesa come liberazione, di tutto ciò che opprime l’uomo e il peccato (n. 9). La centralità del Regno suppone dalla nostra parte una conversione radicale (n. 10). Lo stesso anno in cui era stata pubblicata l’EN Moltmann diceva: «La missione non deve essere compresa a partire dalla chiesa ma è la chiesa che va osservata alla luce della sua missione» [Moltmann Jürgen, La chiesa nella forza dello Spirito. Contributo per una ecclesiologia messianica, Queriniana, Brescia 1976, 25].

Nel n. 12 troviamo uno degli elementi che hanno configurato dopo la fine degli anni '60 la teologia del Terzo Mondo. Parlando dei segni evangelici della proclamazione evangelica, ricorda come «i piccoli, i poveri sono evangelizzati, diventano suoi discepoli [di Gesù], si riuniscono “nel suo nome” nella grande comunità di quelli che credono in lui». Qui ebbe inizio una visione rivoluzionaria della missione, i poveri non sono soltanto i destinatari dell’evangelizzazione, possono e devono essere i suoi protagonisti. La teologia della liberazione fará di loro il centro della sua concezione della missione. Possiamo qui ricordare le parole di J. Sobrino: «Pero el pobre no es sólo destinatario privilegiado dela evangelización, sino condición de posibilidad de la evangelización; la evangelización del pobre es constitutiva para el contenido de la misma evangelización» (però il povero non è soltanto destinatario priveligiato dell’evangelizzazione, ma condizione di possibilità dell’evangelizzazione; l’evangelizzazione del povero è costitutiva per il contenuto dell’evangelizzazione stessa) [cfr. SOBRINO Jon, Resurrección de la verdadera iglesia. Los pobres, lugar teológico de la eclesiología, Sal Terrae, Santander 1984, 307].

In questo documento non si parla di una chiesa trionfante o vittoriosa, ma di una chiesa che «resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova speranza di Gesù» (n. 15). Una chiesa in somma situata tra l’opacità della storia e lo splendore del Regno. Su questa magnifica visione della chiesa si possono vedere le interessanti intuizioni teologiche di Ch. Duquoc: «Solo con pudore si può parlare del Regno che viene: troppe miserie opprimono gli uomini perché un annuncio indiscreto venga ascoltato. La precarietà dell’istituzione ecclesiale la salva dall’insolenza alla quale potrebbero spingerla la certezza del proprio avvenire glorioso e il sentimento di essere già abitata dalla presenza gioiosa del Regno. In quest’opera, io ho cercato di pensare la chiesa nella sua situazione oscura, tra l’opacità della storia e la luce del regno» [DUQUOC Christian, “Credo la chiesa”: precarietà istituzionale e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 2001, 316].

L’evangelizzazione è intesa come «portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità, e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa» (n. 18). Qui noi troviamo i numeri che fanno perno al nostro corso:
«Strati dell'umanità che si trasformano: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» [n. 19].

Ritorna dunque con più forza quello che la GS n. 44 aveva chiamato la legge di ogni evangelizzazione, e cioè: «Occorre evangelizzare —non in maniera decorativa... ma in modo vitale...— la cultura e le culture dell’uomo», perché «la rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (n. 20).

Ma l’evangelizzazione, anche senza rinunciare alla sua visione trascendente, «non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello, che fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell'uomo. Per questo l'evangelizzazione comporta un messaggio esplicito, adattato alle diverse situazioni, costantemente attualizzato, sui diritti e sui doveri di ogni persona umana, sulla vita familiare..., sulla vita in comune nella società, sulla vita internazionale, la pace, la giustizia, lo sviluppo; un messaggio, particolarmente vigoroso nei nostri giorni, sulla liberazione» (n. 29).

Su questa scia risulta molto interessante la teologia missionaria dello Hoekendijk, secondo il quale non si può andare avanti facendo teologia solo con lo stile di uno “scriba”, ma molto di più bisogna farlo con quello di un sociologo e uno storico, dando grande importanza alle esigenze del momento storico in cui si vive, altrimenti si da una caricatura cadaverica della missione, della quale si potrà anche parlare con entusiasmo, man con la quale non si potrà lavorare [cfr. COFFELE Gianfranco, Johannes christiaan Hoekendijk. Da una teologia della missione ad una teologia missionaria, PUG, Roma 1976, 51].

Come chiarisce il documento, il richiamo per la liberazione era venuto principalmente dai «vescovi del Terzo Mondo» (n. 30).

Noi crediamo che il numero che meglio riassume la visione e il senso che daremmo al nostro corso sia il n. 31:

«Tra evangelizzazione e promozione umana —sviluppo, liberazione— ci sono, infatti, dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l'uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della Redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell'ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare. Legami dell'ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l'autentica crescita dell'uomo? Noi abbiamo voluto sottolineare questo ricordando che è impossibile accettare che “nell'evangelizzazione si possa o si debba trascurare l'importanza dei problemi, oggi così dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace nel mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal Vangelo sull'amore del prossimo sofferente e bisognoso”. Ebbene, le medesime voci che con zelo, intelligenza e coraggio hanno affrontato nel corso del citato Sinodo questo tema cruciale, hanno offerto, con nostra grande gioia, i principi illuminanti per cogliere la portata e il senso profondo della liberazione quale l'ha annunziata e realizzata Gesù di Nazareth, e quale la predica la Chiesa».

miércoles, 8 de octubre de 2008

LEZIONE N. 1: TEOLOGIA DELLA CITTÀ: SFIDE PER LA PASTORALE E PER LA MISSIONE

(08.10.08) Aula XXVII
3ª Ora: 10,20 – 11,05 4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione


Questioni preliminari

Dati professore
Blog (http://misiologiachopin.blogspot.com/), anche e-mail (portillo277@hotmail.com).

Presentazione del corso
Gli obiettivi del corso sono: (1) analizzare in quale senso il futuro e il presente della missione è nella città, in modo particolare nelle megalopoli del sud del mondo (cf. Redemptoris missio, 37b); (2) Si tratta anche d'introdurre una lettura teologica delle realtà terrene sulle particolarità cittadine.

Contenuti: Il corso prevede (1) un’analisi dello sviluppo della concezione storica e sociologica della città; (2) la sua concezione biblica e teologica; (3) il rientro del concetto di città nella concezione odierna della missione; (4) infine, le sfide che tale fenomeno implica per la pastorale e per la missione.

PROGRAMMA
1. Introduzione
1.1 I nuovi volti del cristianesimo del XXI secolo: Solo una questione di statistiche?
1.2 Verso il rientro della città nella missione cristiana: Redemptoris missio, 37b
1.3 La città, sfida alla missione e alla pastorale della chiesa

2. Complessità del fenomeno urbano
2.1 La città tra utopia e realtà storica
2.2 Una visione iterdisciplinare: sociologia, antropologia e filosofia della città
2.3 Più che un territorio: la città come habitus umano
2.4 Per una città più umana

3. La città e il suo fondamento biblico
3.1 La città ideale dei profeti
3.2 La città nel Nuovo Testamento
3.3 Dalla persecuzione alla missione. I primi cristiani urbani

4. Teologia della città
4.1 Il perché di una teologia della città [Hoekendij, Rütti]
4.2 Il tema della città nella teologia
4.3 La città come argomento teologico
4.4 Dio e la città nella teologia politica e nelle teologie del Terzo Mondo
4.5 Cristianesimo responsabile nella città

5. La chiesa e la Città
5.1 Rapporto tra chiesa e città (GS 21)
5.2 Le forme di presenza della chiesa nella città
5.3 La pastorale urbana come sfida prioritaria della missione
5.4 Evangelizzare nella metropoli: opportunità e compiti
5.5 Per dare un’anima e una speranza alla città

6. Conclusione

TESTO BASE: Frosini Giordano, Babele o Gerusalemme? Teologia delle realtà terrestri, Vol. 1: La città, Dehoniane, Bologna 2007.

Altri testi verranno presentati nello svolgersi del corso; comunque la bibliografia preliminare potete trovarla nel blog del professore oppure in copisteria. Se per caso non fosse di vostro piacimento il testo di Frosini potete consultare anche quello di Comblin.
In testo di Joseph Comblin, Teologia della città, Cittadella, Assisi 1971.

Svolgimento e verifica
Il corso prevede lezioni magistrali, letture personali e almeno un lavoro scritto.
Modalità di verifica: Colloquio orale a partire dal lavoro scritto e dalle letture guidate.



INTRODUZIONE
I nuovi volti del cristianesimo del XXI secolo: Solo una questione di cifre?

Dal momento che Godin e Daniel si fecero la domanda se la Francia era un paese di missione [cfr. H. Godin – Y. Daniel, La France. Pays de mission?, Paris 1950], ciò significò allo stesso tempo —e non solo per la Francia— che la concezione della missione oramai era cambiata. I destinatari ultimi della missione della chiesa non erano più soltanto quelli delle zone rurali e sperdute nella foresta, bensì i centri urbani. La visione classica della missione che vedeva i missionari partire per terre lontane era finita; i processi di decolonizzazione, di liberazione e della mobilità umana costrinse le vecchie e soprattutto le giovani chiese ad un ripensamento della missione. La Redemptoris missio ad esempio difende con forza l’attualità della missione ad gentes, ma anche essa riconosce al n. 32: «Già prima del concilio si diceva di alcune metropoli o terre cristiane che erano diventate “paesi di missione”, né la situazione è certo migliorata negli anni successivi».

In una pubblicazione del 1974, Walbert Bühlmann, poteva affermare: «Uno sguardo alla cartina geografica e salta subito agli occhi come l’Europa vi faccia la figura di un nano circondato da giganteschi continenti a est, sud e ovest. Ma uno sguardo alla storia del mondo ci dice che questo nano, grazie alla sua intelligenza e alla sua energia, ha svolto un ruolo di guida nel nostro globo. Infine uno sguardo al presente ci fa capire che quest’atto dell’egemonia europea volge alla sua fine e che i riflettori cominciano ad inquadrare nuovi gruppi, che stanno per entrare in scena: i popoli del Terzo Mondo». Allora, dice l’autore, dal momento che ormai tutti parlano di Terzo Mondo, perché non dovremmo introdurre anche il neologismo di Terza Chiesa? [cfr. W. Bühlmann, La terza chiesa alle porte. Un’analisi del presente e del futuro ecclesiali, Paoline, Alba (Cuneo) 1976, 19].

Nel suo scritto Bühlmann dedica un capitolo al tema delle città e dell’urbanizzazione. Lo si voglia o no, dice l’autore, il fenomeno dell’urbanesimo è una tendenza pronunciata della società moderna. È vero che in molti paesi occidentali, dopo la fuga dalla campagna, si comincia già a parlare di fuga dalla città. Nel Terzo Mondo però l’urbanesimo è in pieno sviluppo in una maniera incontrollata. Attualmente, si dice che nei paesi del Terzo Mondo il 50% della popolazione abiti nei centri urbani.

Anche Aylward Shorter identifica lo stesso problema già nel 1971, ma subito polemizza con H. Cox, che lo trascina più in una visione ideologica della città, meno nella sua forma sociologica. Secondo l’autore è mancata una comunicazione tra l’espressione occidentale della fede e quella delle culture a cui era stata predicata nel periodo coloniale. La sua costatazione lascia un sapore di amarezza: «I missionari hanno esportato un cristianesimo prefabbricato e non si sono preoccupati di scoprire se e come era compreso dai popoli ai quali veniva predicato. Anche oggi, dopo che tanto fu detto e scritto circa l’adattamento dei riti, ben poco è stato fatto per adattare fondamentalmente il messaggio», secondo lui, sarebbe questa la causa che porta ad una visione secolaristica della predicazione del vangelo in città [cfr. A. Shorter, Teologia della missione, Paoline, Catania 1971, 151-153].

Più che Shorter, penso che sia Bühlmann quello che ha capito meglio la questione di cui stiamo trattando. Parlare di teologia della città implica due livelli, da una parte, il fenomeno sociale come tale, cioè, il dato sociologico: i cristiani del Terzo Mondo che vivevano nella campagna si sono spostati ai centri urbani, da un’altra parte nei paesi occidentali, che sono ormai da anni sotto il segno della secolarizzazione, non dice niente il dato sociologico, piuttosto vanno un passo in avanti e si domandano se abbia senso parlare di Dio nella città costruita dagli uomini, quindi qui città non significa semplicemente edificazione o luogo fisico, ma una forma di pensare, uno stile di vita; «città secolare » in H. Cox non è la semplice opposizione nel piano fenomenologico tra civiltà urbana e religione tradizionale, la sua è una giustificazione e un’argomentazione in favore della secolarizzazione. Ma di questo parleremmo più avanti.

Ciò che colpisce è il fatto che, nonostante le osservazioni fatte sia da questi teologi, che, anche quelle, più radicali, dei teologi della «morte di Dio» e della «città secolare», la chiesa non si sia ressa conto dell’importanza di sviluppare una teologia della città che riesca a rispondere alle esigenze della situazione sociale contemporanea. Di fatto non è facile trovare dei testi teologici che parlino esplicitamente della teologia della città.

Secondo una pubblicazione più recente la «terza chiesa» è già arrivata [cfr. Jenkins Philip, La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004]. Quello che affermavano i conservatori nordamericani degli anni settanta, cioè che i cristiani siano non-neri, non-poveri e non-giovani è ormai passato: «qualsiasi cosa possano credere gli europei e i nordamericani, il cristianesimo gode di ottima salute nel Sud del mondo; non solo sopravvive, ma si espande» [cfr. Ph. Jenkins, La terza chiesa, 4]. Lo afferma anche la Redemptoris missio: «la maggioranza dei fedeli e delle chiese particolari non è più nella vecchia Europa» (n. 40). Anche il mito della secolarizzazione è passato, e per quanto prevede lo Jenkins: «nel futuro prevedibile, la corrente dominante nel mondo del cristianesimo emergente sarà tradizionalista, ortodossa e sopranaturalistica» [cfr. Ph. Jenkins, La terza chiesa, 14]. Evidentemente bisogna domandare a Jenkins quale tipo di religione sta emergendo; se quella pentecostale per esempio sia quella che risponda meglio alle esigenze nel mondo contemporaneo.

Ad ogni modo, tutti questi autori concordano nel fatto che nel futuro prossimo i centri più numerosi del cristianesimo si concentreranno nel Sud del mondo, appunto nelle città più popolate. Se nel 1900 tutte le maggiori aree urbane nel mondo erano collocate o in Europa o nel Nordamerica, oggi, solo tre delle dieci maggiori aree urbane del mondo [Tokyo, Bombay, Lagos, Shanghai, Djakarta, San Paolo, Karachi, Pechino, Dacca, Città del Messico], e cioè Tokyo, New York e Los Angeles, si trovano nei paesi tradizionalmente avanzati; nel 2015 l’unica di queste città ancora nella lista sarà Tokyo. Attualmente l’80 % dei maggiori agglomerati urbani del mondo si collocano o in Asia o in America Latina, ma alla metà del secolo le città africane diventeranno molto più importanti. La percentuale di africani che vivono in aree urbane crescerà dal 40% circa di oggi a quasi il 66% nel 2050. Ecco perché risulta indispensabile una teologia della città.

Davanti alle prospettive che aprono il XXI secolo viene da domandarsi se il cristianesimo che stiamo vivendo sia un cristianesimo ancora identico a se stesso, oppure se sia un cristianesimo svuotato dalla sua capacità dialettica con il mondo. Dotolo lo dice così: «sottesa alla neutralizzazione della tradizione c’è l’ipotesi che la modernità (e per certi versi la postmodernità) abbia in qualche modo svuotato lo specifico del cristianesimo della sua pertinenza e forza d’attrazione. La contemporaneità, allora, non è anti-cristiana, perché non si accanisce nella demolizione dell’architettura del progetto cristiano, come probabilmente, accadeva nel dibattito acceso con i teoremi dell’ateismo o come avviene per alcuni nostalgici di un laicismo senza concorrenti. È piuttosto, post-cristiana, nel senso che si è appropriata di ideali e valori evangelici, distaccando il messaggio dalla sua ispirazione di fondo, cioè dalla prospettiva interpretativa della persona di Gesù Cristo» [cfr. C. Dotolo, Un cristianesimo possibile. Tra postmodernità e ricerca religiosa, Queriniana, Brescia 2007, 169]. Si avvera allora ciò che la Redemptoris missio afferma, e cioè che il «cosiddetto fenomeno del “ritorno religioso” non è privo di ambiguità» (n. 38).

Nonostante il mio scetticismo verso i numeri, posso essere d’accordo con le parole di G. Cavallotto, nel senso che «i numeri sono una finestra aperta sul mondo», in quanto «essi hanno occhi e si esprimono con un loro linguaggio» [cfr. G. Cavallotto, Dati invisibili e futuro della missione. Eredità sociale, religiosa, ecclesiale del XX secolo, UUP, Roma 2006, 8]. L’autore ci parla di una serie di sfide che vengono poste attualmente ai cristiani : (1) La maggioranza della popolazione mondiale vive nella povertà. Esiste, poi, il dramma della miseria, che colpisce un quinto degli abitanti della terra. La quasi totalità dei più poveri si trova nel Sud del mondo; (2) La non-credenza. Un abitante della terra su 7 si considera non credente; (3) All’inizio del XX secolo gli aderenti alle religioni non cristiane costituivano il 65% della popolazione mondiale. A fine secolo si attestano al 51%, pari a poco più di 3 miliardi. Si può dire che nel 2000 una persona su due aderisce ad una propria religione, esclusa quella cristiana; (4) Nel 2000 la popolazione urbana delle due Americhe, dell’Europa e dell’Oceania supera il 70% degli abitanti dei propri continenti, mentre a livello mondiale la percentuale dei cristiani che vivono nelle città raggiunge il 62,7% di tutta la popolazione cristiana; (5) La missione ad gentes; (6) Ecumenismo. L’analisi dell’ex-rettore della Università Urbaniana è più ampio; ma questi dati bastano per farci un’idea delle tendenze attuali del cristianesimo.

La cosa più importante è che questo spostamento del baricentro dei cattolici apre nuovi orizzonti e rinnovati compiti per la chiesa e la missione. Siamo tutti chiamati in causa: «In fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione ecclesiale occorre promuovere un cristianesimo dal volto africano, asiatico, latinoamericano» [cfr. G. Cavallotto, Dati invisibili e futuro della missione, 153-160].


Verso il rientro della città nella missione cristiana: Redemptoris missio, 37b

Il Concilio Vaticano II affermò che la chiesa «è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Questa è la sua ragione di essere. Ciò significa che la chiesa, seguendo la missione ricevuta da Cristo, non è fine a se stessa, ma essa sta al servizio di realtà che la superano: il regno di Dio e il mondo. Per realizzare questa sua missione la chiesa deve «scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un mondo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini» (GS 4).

Inoltre, se «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco» (GS 1) nel cuore dei discepoli di Cristo, e se la maggior parte dell’umanità abita le città, è chiaro, allora, che le città diventano spazio fisico e simbolico dove i segni dei tempi si manifestano.

È importante, dunque, in primo luogo conoscere la vita della città; in secondo luogo, ci domanderemo se la chiesa è in mezzo alla città un vero sacramento oppure no, e, infine, lavorare sui modi migliori di comunicare il vangelo nelle città.

La GS non parla chiaramente della città come ambito della missione della chiesa, ma parla diverse volte di società industriale, di civilizzazione urbana, di industrializzazione e urbanizzazione (cfr. GS 6).

Quando si riferisce alla «città umana» o «terrena» (per esempio nn. 14, 20, 43, 76), non intende la città come fenomeno urbano, ma l’insieme delle realtà che sono frutto della tecnica e tutti gli altri elementi che costituiscono la cultura dell’uomo. È intessa anche in contrapposizione a «città celeste» (n. 57), in quanto sinonimo di vita eterna. La visione contrapposta tra le due città ci fa ricordare l’opera di Agostino, la Città di Dio; in essa il vescovo parla apertamente di due città a cui da un proprio nome: Gerusalemme e Babilonia. Con il significato simbolico che la Scrittura attribuisce a queste due città: Gerusalemme, che per i Salmi indica la città santa, viene trasferita dalla Lettera agli Ebrei (12, 22) e dell’Apocalisse (3, 12; 21, 2) a indicare la città celeste, la Gerusalemme nuova; mentre la Babilonia è la grande città destinata alla distruzione (Apoc 18, 10). Ma di questo ci occuperemmo più avanti.

Abbiamo dovuto aspettare fino al 1990 perché il magistero recente si pronunciasse con forza sul tema della città come ambito della missione. È allora che possiamo parlare di un rientro del tema della città nella tematica missionaria.

Il tema viene introdotto nel capitolo IV della Redemptoris missio. Il capitolo inizia affermando che la missione è universale, non ha confini e riguarda una salvezza integrale (n. 31). Però la missione si realizza in un contesto religioso complesso, in una situazione «assai diversificata e cangiante» (n. 32); compare, dunque, tra i fenomeni sociali più accentuati l’urbanizzazione e si afferma quello che Godin e Daniel avevano detto molto tempo prima, cioè che le metropoli diventavano terra di missione.

Ora, dove si parla con forza sulla città come ambito della missione è al n. 37, dal titolo: Ambiti della missione “ad gentes”. Il numero è diviso in tre punti: (a) Ambiti territoriali; (b) Mondi e fenomeni sociali nuovi, e infine, (c) Aree culturali, o areopaghi moderni. Ebbene, nel secondo punto leggiamo queste interessanti parole:

(37b):
«Le rapide e profonde trasformazioni che caratterizzano oggi il mondo, in particolare il Sud, influiscono fortemente sul quadro missionario: dove prima c'erano situazioni umane e sociali stabili, oggi tutto è in movimento. Si pensi, a esempio, all'urbanizzazione e al massiccio incremento delle città, soprattutto dove più forte è la pressione demografica. Già ora in non pochi paesi più della metà della popolazione vive in alcune megalopoli, dove i problemi dell'uomo spesso peggiorano anche per l'anonimato in cui si sentono immerse le moltitudini. Nei tempi moderni l'attività missionaria si è svolta soprattutto in regioni isolate, lontane dai centri civilizzati e impervie per difficoltà di comunicazione, di lingua, di clima. Oggi l'immagine della missione ad gentes sta forse cambiando: luoghi privilegiati dovrebbero essere le grandi città, dove sorgono nuovi costumi e modelli di vita, nuove forme di cultura e comunicazione, che poi influiscono sulla popolazione. È vero che la «scelta degli ultimi» deve portare a non trascurare i gruppi umani più marginali e isolati, ma è anche vero che non si possono evangelizzare le persone o i piccoli gruppi, trascurando i centri dove nasce, si può dire, un'umanità nuova con nuovi modelli di sviluppo. Il futuro delle giovani nazioni si sta formando nelle città».
Resta da domandarsi per quale motivo, nonostante l’evidente emergenza delle città, la teologia cattolica abbia dedicato così poco spazio nelle sue analisi al fenomeno dell’urbanizzazione.

Lettura consigliata: BAUMAN Zygmunt, Fiducia e paura nella città, Mondadori, Milano 2005.

lunes, 6 de octubre de 2008

LEZIONE N. 1: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA: FORME DI SVILUPPO E RUOLO DELLA CHIESA

LEZIONE Nº 1

(07.10.08) Aula XXVII
3ª Ora: 10,20 – 11,05/4ª Ora: 11,10 – 11,55

QUESTIONI PRELIMINARI

Dati professore
Juan CHOPIN (San Vicente - EL SALVADOR, C.A .)blog (http://misiologiachopin.blogspot.com), e-mail (portillo277@hotmail.com).

Gli obiettivi del corso sono: (1) Presentare una lettura integrale della salvezza, nel senso di GS n. 1: Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore; (2) Fare una lettura ecumenica dei temi in questione: Uppsala 1968; (3) Introdurre le prospettive che questi temi hanno nel dibattito teologico attuale.


Contenuti: Il corso presenta il posto che temi quali la politica, la pace, la giustizia, ecologia hanno avuto nella teologia cattolica e protestante; inoltre è analizzato il posto che hanno nei documenti ecumenici e nella dottrina sociale della chiesa; infine, vengono presentate le sfide che questi temi pongono alla missione oggi.


PROGRAMMA

Introduzione
a) Due punti di riferimento: Gaudium et Spes (1965) e Uppsala (1968)
b) Teologia delle realtà terrene
c) L’Evangelii Nuntiandi e teologia della missione: introduzione al pensiero di Johannes Hoekendijk


1. La società moderna: eredità e futuro
1.1 Sviluppo a quale prezzo?
1.2 Verso una morale Planetaria:
a. Il rapporto uomo-natura
b. Patto generazionale


2. Il vangelo della vita e la teologia della natura
2.1 La visione «antiquata» del mondo e il «principio responsabilità»
2.2 La creazione
2.3 Il rispetto della natura nell’AT
2.4 Il vangelo della Vita predicato da Gesù
2.5 Responsabilità cristiana ed ecologia


3. Dalla giustizia alla misericordia
3.1 Giustizia, sicurezza e pace
3.2 Il sermone del monte e l’esercizio cristiano della giustizia
3.3 Il principio-misericordia come programma di vita


4. Per una salvezza integrale e armonica
4.1 Chiesa e segni dei tempi
4.2 Dottrina sociale della chiesa
4.3 La salvezza nell’armonia del dialogo ecumenico e nel pluralismo cultural e religioso [Hoekendijk, Rütti, Dupuis, Duquoc]Conclusione

5. Conclusione


Bibliografia
• Testo base per il corso: MOLTMANN Jürgen, La giustizia crea futuro. Una politica ispirata alla pace e un’etica fondata sulla creazione in un mondo minacciato, Queriniana, Brescia 1990.
• Del testo di Moltmann interessa soprattutto le sue riflessioni sulla teologia della creazione e il rapporto che c’è tra giustizia e pace.

Nel pensiero di Moltmann si possono distinguere due momenti: da una parte la sua teologia della speranza [cfr. MOLTMANN Jürgen, Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1970. La prima edizione è dal 1964], e da un’altra la sua teologia sul Dio crocifisso [cfr. Moltmann Jürgen, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 1973. La prima edizione è dal 1972]. Moltmann nel suo tentativo di dialogo con Ernst Bloch [cfr. P. A. SEQUERI, Escatologia e teologia. Infrastruttura concettuale del discorso su «Dio» come «futuro», La Scuola Cattolica, Venegono Inferiore (VA) 1975, 41-49], nel mettere in risalto il novum —dicendo che la speranza cristiana è indirizzata ad un novum ultimum, alla nuova creazione di tutte le cose ad opera del Dio del Cristo risorto—, inteso come un futuro:

EX-CURSUS:(Non si tratta dell’idea convenzionale di futuro, ma dal punto di vista teologico, si parla del futuro che viene con la risurrezione di Gesù Cristo. Moltmann sostiene che la parola tedesca Zukunft esprime l’idea di futurum come quella di adventus. Futuro sarebbe quello che de-viene e anche quello che ad-viene. La differenza tra queste due espresioni del futuro sta nel fatto che futurum è il risultato dei dati già offerti dal presente o dal passato; mentre adventus significa qualcosa di completamente nuovo. Come adventus il futuro può soltanto essere anticipato nel presente, mai però estrapolato da esso)FINE EX-CURSUS.


che supera i limiti imposti dal primum e dall’ultimum della tradizione giudeo-cristiana, abbia trascurato il continuum, e di conseguenza, la forza del presente; «questa esasperazione del futuro rende il presente solo occasione e motivo di speranza, ma non chiarisce, né lo può, la presenza operante della salvezza qui e adesso. In lui il non-ancora soffoca il già» [cfr. G. COLZANI, «La croce come fondamento ed orizzonte della promozione umana sviluppo e riflessione sulla teologia politica di J. Moltmann», in La Scuola Cattolica 105 (1977), 323].
• Quindi il testo di Moltmann ci interessa per lo sviluppo articolato che fa dei temi che ci occupano: pace, giustizia, e salvaguarda del creato, anche non sempre si condivida pienamente la sua impostazione teologica.
• Altri testi verranno presentati nello svolgersi del corso, comunque la bibliografia preliminare potete trovarla nel blog del professore oppure in copisteria.

Svolgimento e verifica
• Il corso prevede lezioni magistrali, letture personali e almeno un lavoro scritto.
• Modalità di verifica: Colloquio orale a partire del lavoro scritto e delle letture guidate.


INTRODUZIONE

a. DUE PUNTI DI RIFERIMENTO: GAUDIUM ET SPES (1965) E UPPSALA (1968)

Bibliografia
(I) CONCILIO VATICANO II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes (7 dicembre 1965), ENCHIRIDION ECUMENICUM, Vol. 1, EDB, Bologna 1985, 772-965; DE RIEDMATTEN H. – RAHNER K. – CHENU M.-D. – SCHILLEBEECKX E. – HEYLEN V. – DONDEYNE A. – LEBRET L. J. – CALVEZ J.-Y – DUBARLE D. – LAWRENCE J. – REID J. K. S., La chiesa nel mondo contemporaneo. Commento alla costituzione pastorale “Gaudium et Spes”, Queriniana, Brescia 1966; G. COLZANI, «A quarant’anni dalla “Gaudium et Spes”. La legge di ogni evangelizzazione», in Rivista di Scienze Religiose, 19 (2005), 437-468.
(II) ENCHIRIDION ŒCUMENICUM, Vol. 5: CEC. Assemblee Generali 1948-1998, Dehoniane, Bologna 2001, 346-586; per la genesi del Consiglio Ecumenico delle Chiese, cfr. VISSER’T HOOFT W. A., «La genesi del Consiglio Ecumenico delle chiese», in R. ROUSE – S. CH. NEILL (a cura di), Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948, vol. 3: Dalla Conferenza di Edimburgo (1910) all’Assemblea ecumenica di Amsterdam (1948), EDB, Bologna 1982, 521-576.


(I) Gaudium et Spes (1965): La nostra riflessione in questo corso parte dell’apertura che la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes dimostra verso i più diversi aspetti della vita degli uomini: la politica, la cultura, lo sviluppo tecnico e scientifico, ecc. A partire del n. 1 è evidente l’apertura; secondo questo documento tutti gli aspetti della vita degli uomini entrano nel piano di salvezza di Dio e quindi, il dialogo diventa così una priorità della missione della chiesa nel mondo contemporaneo.

Attualmente i temi messi in risalto dalla GS hanno per tutti noi una grande importanza; invece questo documento conciliare è uno di quelli che non sempre è stato ben visti dalla critica teologica, veniva considerato poco preciso nelle sue formulazioni teologiche e quindi finora è citato solo in punti isolati e non nel suo insieme contenutistico [su queste riflessioni cfr. H. POTTMEYER, «Hacia una nueva fase de recepción del Vaticano II. Veinte años de hermenéutica del Concilio», in G. ALBERIGO – J.-P. JOSSUA (eds.), La recepción del Vaticano II, Cristiandad, Madrid 1987, 49-67].

È insito nella genesi storica di questo documento che la chiesa non ha senso solo nella sua costituzione interna (ad intra), che poi sarà il tema della Lumen Gentium, del De Ecclesia, ma che ha anche una sua espressione verso il mondo (ad extra). Questa è l’idea di fondo che il Cardinale Suenens (arcivescovo di Malines e Bruxells), assecondato da Montini, vuole trasmettere ai padri conciliari. Diceva Suenens: «il mondo propone alla chiesa questioni estremamente gravi, e attende da essa una risposta» e sottolineava fra i temi più scottanti: (1) la vita della persona umana; (2) la giustizia sociale; (3) l’evangelizzazione dei poveri e le condizioni perché la testimonianza cristiana giunga a loro; (4) la pace internazionale e la guerra. Le stesse intuizioni si possono trovare anche in alcuni discorsi di Giovanni XXIII [cfr. H. DE RIEDMATTEN, «Storia della costituzione pastoral», in DE RIEDMATTEN H. – RAHNER K. – CHENU M.-D. – SCHILLEBEECKX E. – HEYLEN V. – DONDEYNE A. – LEBRET L. J. – CALVEZ J.-Y – DUBARLE D. – LAWRENCE J. – REID J. K. S., La chiesa nel mondo contemporaneo, 19-59].

A tale punto si percepisce la novità di questo documento, che Rahner affermerà trattasi di una «dichiarazione conciliare di tipo assolutamente nuovo», aggiungendo subito che «non è facile, tuttavia, dire che cosa sia propriamente una costituzione pastorale». Il documento è diviso in due parti, una prima parte dottrinale e una seconda parte più legata alle più concrete situazioni temporali. Forse per questa sua concretezza nel presentare e descrivere i fatti storici rischia la variabilità dei suoi argomenti. Rahner, ricordando la LG dirà che nell’essenza della chiesa non rientra soltanto l’elemento istituzionale, fatto di dottrina comune, di sacramenti e di diritto, ma anche l’elemento carismatico, in questo senso le istruzioni della chiesa, in quanto decisioni dei titolari d’ufficio della chiesa, sono istruzioni carismatiche, date sotto l’assistenza dello Spirito alla chiesa. Giunge così ad una definizione di costituzione pastorale: la natura di una “costituzione pastorale” consiste in istruzioni della chiesa, rivolte in primo luogo ai suoi membri, e in certo modo anche a tutti gli uomini che sono disposti ad ascoltarla, istruzione che, nella situazione del presente penetrata in modo carismatico, vengono promulgate come decisioni della chiesa in ordine alla “chiamata” carismatica di Dio [cfr. K. RAHNER, «La problematica teologica di una costituzione pastorale», in DE RIEDMATTEN H. – RAHNER K. – CHENU M.-D. – SCHILLEBEECKX E. – HEYLEN V. – DONDEYNE A. – LEBRET L. J. – CALVEZ J.-Y – DUBARLE D. – LAWRENCE J. – REID J. K. S., La chiesa nel mondo contemporaneo, 61-83].

La questione interessante è la centralità che i valori terreni hanno in questo documento. Fino ai giorni del Concilio e anche nei giorni nostri notiamo una costante separazione tra la vita terrena e la religione. Questo è grave quando si tratta non di una distrazione ma di un atteggiamento voluto e cercato per non confrontarsi con i problemi che scuotono il mondo; in tale atteggiamento la prassi della fede e la religione diventano una sorta di rifugio di alcuni eletti la cui missione si restringe alla custodia delle loro fondamenta, rifiutando ad ogni costo il dialogo. Ora, in un mondo nel quale l’uomo diventa sempre più il centro e l’artefice della storia ci si deve porre la questione: che relazione esiste fra la prospettiva futura terrena e la speranza cristiana di un compimento escatologico? Qual è il rapporto fra l’umanizazzione e il Regno di Dio? [cfr. E. SCHILLEBEECKX, «Fede cristiana ed aspettative terrene», in DE RIEDMATTEN H. – RAHNER K. – CHENU M.-D. – SCHILLEBEECKX E. – HEYLEN V. – DONDEYNE A. – LEBRET L. J. – CALVEZ J.-Y – DUBARLE D. – LAWRENCE J. – REID J. K. S., La chiesa nel mondo contemporaneo, 103-135].

Il risultato sarà un gesto di apertura dialogica da parte della chiesa al mondo, che, scrutando i segni dei tempi, mette al centro del dibattito una serie di questioni che interessano all’uomo: (1) Il matrimonio e la famiglia; (2) La promozione e il progresso della cultura; (3) La vita economica e sociale; (4) La comunità politica; (5) La guerra e la pace. Di alcuni di questi elementi ci occuperemmo in questo corso. Ma prima identifichiamo alcuni elementi del documento che hanno attualità nel presente .

Penso che attualmente a nessuno sfugga il fatto che il Concilio abbia permesso al cattolicesimo di accedere a un nuovo livello di autocoscienza, avendo fatto sì che la chiesa sperimentasse questa apertura mondiale e integrale. E non solo questo, se i centri più forti di diffusione cristiana si trovano attualmente nelle chiese del Terzo Mondo, ciò significa, da una parte che i problemi di queste chiese passano (o dovrebbero passare) al centro del dibattito teologico, e in secondo luogo che una tale emergenza delle chiese giovani richiama un governo decentralizzato della chiesa, e qui si possono ricordare le parole di LG 13: Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. Mi domando se queste pluralità di chiese non ci faccia pensare ad una chiesa consapevole della sua multiculturalità e ad un governo policentrico della stessa.

Come ricorda Colzani, solo uno sviluppo posteriore ha permesso alla GS di superare se stessa. L’apertura della chiesa al mondo rimane troppo legata alla problematica occidentale, si pensi ad esempio al grande spazio che dedica al tema dell’ateismo e praticamente nulla ai problemi di America Latina, Africa e Asia. Come ricorda anche G. Gutiérrez, il documento addolcisse i forti contrasti fra classi sociali e diversi paesi. Il pieno superamento dei vuoti lasciati dalla GS sono stati colmati da alcuni documenti della dottrina sociale della chiesa (Populorum Progressio: 1967; Octogesima Adveniens: 1971), delle chiese locali (Medellín: 1968), infine dai sinodi, quello del 1971 e il sinodo episcopale di 1976 che poi diventa l’EN di Paolo VI.

Vengono segnalate alcune sfide odierne: (a) Globalizzazione, multiculturalità e comunicazione della fede; (b) Dialogo interreligioso e fondamentalismo; (c) Missione mondiale: secolarizzazione, etica e povertà [cfr. G. COLZANI, «A quarant’anni dalla Gaudium et Spes. La legge di ogni evangelizzazione», in Revista di Scienze Religiose 19 (2005), 437-468].


(II) Uppsala (1968): Il secondo documento a cui faremmo riferimento sará il testo della quarta assemblea generale del CEC: Ecco, io faccio nuove tutte le cose realizzata a Uppsala (Svezia) del 4 al 20 luglio 1968.

Il CEC (Consiglio Ecumenico delle Chiese – Conseil Œcuménique des Églises – World Council of Churches) ha sede a Ginevra ed è stato fondato nel 1948 ad Amsterdam, si definisce come «un’associazione fraterna di chiese che confessano Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture e si sforzano di rispondere insieme alla loro comune vocazione per la gloria di Dio solo, Padre, Figlio e Spirito Santo» [cfr. J.-P. WIILLAIME, «Il Consiglio Ecumenico delle Chiese. Gli ecumenismi», in J.-M. MAYEUR (a cura di), Storia del cristianesimo. Religione, politica, cultura, Vol. 13: Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Borla/Città Nuova, Roma 2002, 142-160].

Uppsala rappresenta una tappa e un evento importante nella storia della chiesa: essa seppe riunire le chiese che intendevano fare ecumenismo su un piano di uguaglianza. Nell’intervallo tra New Delhi (1961) e Uppsala (1968) c’era stato il concilio Vaticano II (1963-1965), attraverso il quale la chiesa cattolica romana si era aperta all’ecumenismo. Il lavoro di questa Assemblea venne articolato in sei temi: (1) unità e cattolicità della chiesa, intese nel piano di Dio nella storia (unità della chiesa come segno dell’unità dell’umanità); (2) rinnovamento della missione, anche attraverso una nuova apertura al mondo, alle sue aspirazioni e alle sue realizzazioni; (3) maggior dialogo con il mondo per un annuncio più efficace del vangelo; (4) rinnovo delle strutture della chiesa in ordine alla missione; (5) ripensamento del senso del culto; (6) adozione di “nuovi stili di vita” per le scelte e le decisioni nella comunità cristiana.

Tuttavia l’assise fu influenzata più dalla situazione storica del cambio culturale che non da quella specifica dell’unità della chiesa. Sotto la spinta della contestazione studentesca e del contraccolpo dell’assassinio di Martin Luther King (avvenuto nello stesso anno), fu l’assemblea più difficile ma anche la più ricca.

L’assemblea s’interessò delle questioni della politica internazionale, della distribuzione delle ricchezze tra nord e sud, del razzismo (apartheid soprattutto). Nel messaggio iniziale possiamo leggere le seguenti parole:

L’entusiasmo per le nuove scoperte scientifiche, la protesta delle rivolte studentesche, l’impressione suscitata dagli assassini, lo scoppio di guerre: questi eventi segnano l’anno 1968. In questo clima l’assemblea di Uppsala è riunita prima di tutto per ascoltare.

Abbiamo udito il grido di coloro che desiderano ardentemente la pace; degli affamati e degli sfruttati che chiedono pane e giustizia; delle vittime di discriminazioni che invocano dignità umana; e della crescente moltitudine di coloro che cercano un significato da dare alla vita.

Dio sente queste grida e ci giudica. Egli anche pronuncia la parola di liberazione.

Noi cristiani manifesteremo la nostra unità in Cristo allacciando una piena fraternità con coloro che appartengono ad altre razze, classi, età convinzioni religiose e politiche nel posto dove noi viviamo. Soprattutto cercheremo di sconfiggere il razzismo ovunque esso appaia.

LETTURA CONSIGLIATA: G. Colzani, «A quarant’anni dalla Gaudium et Spes. La legge di ogni evangelizzazione», in Rivista di Scienze Religiose 19 (2005), 437-468. [È IN COPISTERIA]

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