martes, 30 de diciembre de 2008

MASSACRO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO



























SOLIDARIETÀ AI FRATELLI CONGOLESI
[foto: Joseph Kony, capo dei ribelli che hanno realizzato il massacro; i militari che combatono i ribelli e, infine, i ribelli]
I ribelli dell’LRA Lord’s Resistence Army (Esercito di Resitenza del Signore) hanno seminato il terrore in territorio congolese, si parla, fino alla pubblicazione di questa nota, di 400 morti, in diverse comunità, DUNGU, DORUMA, FARADJE, DURBA, BANGADI e altre (si veda: http://www.radiookapi.net/index.php?i=76&word_tag=LRA;


Il gruppo di ribelli opera principalmente nel nord dell’Uganda ed in alcune parti del Sudan. Il gruppo è guidato da Joseph Kony, che si proclama il “portavoce” di Dio e medium dello Spirito Santo. Il gruppo afferma di voler istituire uno stato teocratico sulla base dei Dieci Comandamenti de della tradizione Acholi (popoli presenti principalmente nella zona di confine tra Uganda e Sudan).


L’LRA ed i suoi dirigenti sono stati accusati dal Tribunale Penale Internazionale di aver attuato numerose violazioni dei diritti umani, compresi l’omicidio, il rapimento, le mutilazioni, la riduzione in schiavitù sessuale di donne e bambini, ed il costringere i bambini a partecipare alle ostilità come bambini-soldato.

PROTESTIAMO CONTRO LA TV ITALIANA PERCHÉ TRASCURA LA TRAMISSIONE DEI CONFLITTI DEI PAESI DEL TERZO MONDO

jueves, 25 de diciembre de 2008

INICIEMOS CON FUERZA: TEMAS MISIONEROS PARA EL 2009


Estimados lectores y lectoras:


A partir del mes de enero iniciaré a publicar una serie de temas relacionados con la misión, escritos en español. Si estás interesad@ en la temática, es suficiente con que votes en la estadística publicada al inicio de este blog, parte izquierda, o bien, puedes sugerir tus propios temas utilizando el espacio dedicado a los comentarios, al final de esta nota.

Te invito a tomarnos en serio nuestra responsabilidad misionera en la historia.


Dios y la Virgen te bendigan.


Atte. Juan CHOPIN.

martes, 23 de diciembre de 2008

FELIZ NAVIDAD/BUON NATALE


Que el niño-Jesús nazca en tu corazón y te haga valiente testigo de la vida y el amor.


Il bambino-Gesù nasca nel tuo cuore e ti faccia diventare testimone della vita e l'amore.


Juan CHOPIN

viernes, 19 de diciembre de 2008

LEZIONE N. 9: TEOLOGIA DELLA CITTÀ...

Aula XXVII (17.12.08) 4ª Ora: 11,10-11,55

MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione

3. La città e il suo fondamento biblico

Bibliografia: E. M. Tacchi, «Città», in A. Colombo (a cura di), Dizionario di dottrina sociale della chiesa. Scienze sociale e magistero, Vita e Pensiero, Milano 2004, 190; E. Cortese, «La città ideale dei profeti», in Parole di Vita 32 (1987), 30-38; J. Comblin, Teologia della città, 108-199; G. Frosini, Babele o Gerusalemme?, 145-167.

È paradossale, ma la Bibbia inizia la narrazione dell’economia della salvezza parlando d’un giardino e conclude parlando d’una città: la nuova Gerusalemme. Forse si tratta soltanto di una casualità ma altri passaggi importanti della storia della salvezza rimandano costantemente a delle città: La prima fase, quella pagana, va dal giardino dell’Eden fino a Babilonia; la seconda fase, quella della storia di Israele, comincia con la vita nomade dei Patriarchi e il pellegrinaggio delle tribù nel deserto, e si conclude a Gerusalemme. Passaggio fondamentale è la morte di Gesù a Gerusalemme, la città viene distrutta dai romani e così, senza saperlo iniziava l’era nuova. Infine l’ultima fase, quella del cristianesimo, comincia in Galilea e raggiunge il suo termine nella nuova Gerusalemme. È come se la storia della salvezza si giocasse tra l’ambito rurale e quello urbano.

Inoltre, nella Bibbia, possiamo notare una certa identificazione tra l’agglomerato urbano e la popolazione, come nel libro di Giona, per esempio, quando si parla della “grande città” di Ninive. Essa è caratterizzata dalla presenza di centoventimila abitanti, dispersi su di un territorio percorribile in tre giorni di cammino. Si tratta di un peso demografico abbastanza ridotto, se riferito ad un’area così ampia: al presente probabilmente non si parlerebbe di una città ma di un gruppo di villaggi rurali che costituiscono una provincia o un distretto. Quando invece la connotazione della città come conglomerato urbano è utilizzata con maggiore precisione, non è raro che affiori nella Bibbia una valutazione morale negativa, o quanto meno la preoccupazione per una serie di rischi che si ritengono collegati alla concentrazione e all’interscambio demografico: Sodoma in particolare è l’icona della corruzione urbana, ma anche Corinto dei tempi di Paolo è considerata una città portuale dissoluta e quindi pericolosa moralmente.

Si riscontrano invece più spesso un atteggiamento positivo quando si parla di comunità civica in senso culturale e anche religioso: in particolare Gerusalemme è un’icona del popolo eletto da Dio nella tradizione ebraica e redento da Cristo nell’ottica neo-testamentaria.

Sin dal primo libro della bibbia si afferma che Caino, il figlio primogenito di Adamo, edificò una città per il suo figlio Enoch (Gn 4,17): « Or Caino si unì a sua moglie che concepì e partorì Enoch. Egli divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio suo».

Prima della monarchia esisteva solo un certo Israele. Era semplicemente un assieme disordinato di gruppi etnici, forse anche abbastanza eterogenei. Ció che unifica e rende Israele uno stato è la monarchia.

È molto significativo che il profetismo appaia in Israele proprio quanto sta per formarsi lo Stato monarchico.

3.1 La città ideale dei profeti

I profeti e la politica. L’episodio di 1 Sam 9s., cioè quando Samuele unge Saul come capo di Israele, non è semplicemente un racconto pittoresco, significa che a partire di quel momento lo Spirito, che prima animava gli eroi carismatici del tempo dei Giudici, ora è passato in in’istituzione apposita, quella dei profeti, la quale avrà come scopo principale quello di assistere lo Stato d’Israele e i suoi re.

Ne è la riprova il fatto che lo stesso Samuele, che ha permesso la nascita della monarchia eleggendo il beniaminita Saul, lo detronizza autoritativamente (1Sam 13 e 15) e sceglie come suo successore l’ultimo figlio di Jesse di Betlemme, della tribù di Giuda: Davide (1Sam 16).

Fin qui i profeti sembrano essere personaggi della vita di corte. Pian piano però i veri profeti si sganciano dalla struttura monarchica. Con Salomone la voce della profezia sembra soffocata. Le sue ispirazioni egli, nel clima illuministico della primitiva sapienza di corte, le attinge dai sogni (1Re 3 e 9). Ma subito dopo compare un profeta indipendente: Achia di Silo. Costui viene da un centro culturale molto antico, che le strutture ufficiali, la monarchia e il tempio di Gerusalemme avevano messo da parte. Egli incontra Geroboamo uscito da Gerusalemme e gli predice lo scisma (1Re 11,29-39):

Or avvenne che Geroboamo, uscito da Gerusalemme, incontrò per strada il profeta Achia di Silo. Costui era coperto d' un mantello nuovo e solo loro due si trovavano nella campagna. Allora Achia afferrò il mantello nuovo che indossava e lo strappò in dodici pezzi. Poi disse a Geroboamo: «Prenditi dieci pezzi, perché così dice il Signore: "Ecco, strapperò il regno dalla mano di Salomone e darò a te dieci tribù. A lui resterà una sola tribù in considerazione del mio servo Davide e di Gerusalemme, la città che ho scelto fra tutte le tribù d' Israele. Questo perché egli mi ha abbandonato, si è prostrato davanti ad Astarte, dea dei Sidoni, e Camos, dio di Moab, e a Milcom, dio degli Ammoniti, e non ha camminato nelle mie vie, facendo ciò che è giusto ai miei occhi, i miei statuti e i miei decreti, come Davide suo padre. A lui però non toglierò di mano il regno, perché l' ho costituito principe per tutto il tempo di sua vita, in considerazione di Davide mio servo, che ho scelto e che ha custodito i miei comandamenti e i miei statuti. Toglierò invece il regno di mano a suo figlio e darò a te dieci tribù, mentre a suo figlio conserverò solo una tribù, affinché rimanga in perpetuo una lampada per Davide mio servo davanti a me in Gerusalemme, la città che mi sono scelto per collocarvi il mio nome. Prenderò dunque te perché regni su tutto ciò che desideri e sarai re d' Israele. Se tu ascolterai quanto ti comanderò e camminerai nelle mie vie e farai ciò che è giusto ai miei occhi, custodendo i miei statuti e i miei comandamenti come fece Davide mio servo, io sarò con te e ti edificherò una casa duratura come la edificai a Davide. Ti darò Israele e in tal modo umilierò la discendenza di Davide, benché non per sempre"».


Spesso i profeti vengono consultati per capire gli esiti delle campagne di guerra dei re. Michea (1Re 22) e altri profeti anonimi (1Re 20,13.22.28.35). Eliseo, discepolo di Elia, illumina l’attività militare dei due re alleati Giosafat e Ioram contro i Moabiti (2Re 3).

L’idealizzazione della città compare in Isaia, in lui la visione della città fa riferimento anche a una “fede politica”. Sotto Ezechia, attorno al 700 a.C. Gerusalemme è assediata da Sennacherib re di Assiria. Il profeta dice:

Gerusalemme, la fanciulla, ti ha disprezzato, la città di Sion ti ha deriso, o Sennacherib! Ma tu sai chi hai insultato e ingiuriato? Contro chi hai alzato la voce? Verso chi sei insolente? Verso di me, il Santo d’Israele. (2Re 19 e Is 37).


L’insegnamento profetico non è dato dall’alto e restando al sicuro nelle vicende storiche dolorose del popolo. Il più delle volte i profeti hanno pagato di persona, non solo perché coinvolti nella vita del loro popolo ma anche perché la città li osteggia: Gerusalemme uccide i profeti.

La posizione del profeta è veramente interessante; loro rimangono fedeli al giudizio del loro Dio e tante volte pagano i costi di questa fedeltà. In questo senso si può dire che loro non abbiano un interesse particolarmente “secolare” nel costruire la città degli uomini, cercano piuttosto che la città sia fedele al suo Signore. Ad ogni modo i profeti non perdono la speranza. Essi si concentrano su due punti: sperare nella città futura e combattere i difetti di quella presente. Essi continuano a ritenere che il traguardo finale si deve raggiungere attraverso la storia, quindi invitano i cittadini a partecipare anche a livello sociale e politico.


3.2 La città nel Nuovo Testamento

Quando si dà uno sguardo ai testi biblici che parlano della città si può notare una sorta di lotta dialettica tra ciò che costituisce la città “degli uomini” e la “città di Dio”, ma ciò spiega perché la città è in sé una realtà simbolica, nel senso che non è univoca: può essere vista nella sua forma fisica, nella sua forma politica, e anche nella sua forma teologica. Questi livelli ritornano costantemente nei i testi biblici.

Quale città?
L’evangelista Giovanni presenta l’opposizione tra due diversi tipi di comprensione della città: Babilonia, «la madre delle prostitute e delle abominazioni della terra» (Apoc 17,5) e Gerusalemme, «la sposa dell’Agnello» (Apoc 20,9). Non è difficile notare in questi testi una simbolicità della città, per potere esprimere in modo comprensibile la visione ideale di una città o il suo contrario, cioè la sua corruzione si fa riferimento a due città.

Il popolo di Israele ha veduto il paganesimo incarnato nelle città, per questo la sua negazione del paganesimo ha preso la forma di un ostilità contro le città pagane.

Ma il punto è sapere in quale modo una città può incarnare il paganesimo e un’altra la santità di vita. Una città per definizione è costituita dai suoi abitanti, allora, come fare un giudizio su un’intera città? La cosa interessante è il fatto che questa mentalità giudaica è entrata anche nella mentalità cristiana, cioè quella di distinguere fra una “città di Dio” e una “città degli uomini”.

Una tale dialettica può essere anche letta dal punto di vista sociologico o antropologico, cioè sostenendo che l’attacco dei profeti contro le città corrispondesse piuttosto alla dialettica tra uno stile di vita errante, nomade e un progressivo processo di urbanizzazione e quindi non avrebbe molto a che vedere con un’interpretazione di fede “politica”.

Anche se questa tesi è accettabile, rimane il fatto che i profeti non fanno soltanto un discorso nella linea della psicologia sociale, ma parlano anche dei peccati che gli abitanti di queste città commettono contro i loro principi religiosi, contro il loro Dio, spesso si parla di Idolatria. Quindi le città hanno una funzione politica e anche religiosa. Il profetismo si muove su questi due versanti.

Di conseguenza, i profeti affermano che la ricerca di Dio può cominciare soltanto con una rottura verso il fascino e le seduzioni di un paganesimo di cui le città mostrano tutte le attrattive.

Tra l’altro non è detto che il semplice fatto che una città sia ritenuta “santa” basta per raggiungere uno stato di giustizia davanti Dio. Gesù, parlando alla samaritana dice: «Credimi, donna, verrà l’ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre... Ma viene l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,21s.). E poi, lo stesso Gesù è morto in quella che era ritenuta la “città santa”.

LEZIONE N. 9: POLITICA, ECOLOGIA, ECONOMIA...




[Nella foto, i teologi: Ignacio Ellacuría, ucciso a San Salvador dall'esercito salvadoregno; Friedrich Gogarten e Dietrich Bonhoeffer, quest'ultimo ucciso dai nazisti].
(Martedí, 16.12.08)/Aula XXVII 1ª Ora: 8,30 – 10,05 2ª Ora: 09,20 – 10,05
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.

2.5 Responsabilità cristiana ed ecologica

Bibliografia: F. Gogarten, L’annuncio di Gesù Cristo. I fondamenti e il compito, Queriniana, Brescia 1978, 52-63; D. Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano 1969; I. Ellacuría, «El pueblo crucificado. Ensayo de soteriología histórica», in Escritos Teológicos, vol. II, UCA Editores, San Salvador 2000, 137-170.

Fino ad oggi abbiamo parlato di responsabilità facendo riferimento ad un concetto di responsabilità che non parlava in modo esplicito della vita cristiana. Ora tentiamo di precisare meglio cosa s’intenda essere responsabili dal punto di vista cristiano.

Responsabili in Cristo
Noi siamo partiti dall’analisi della situazione di distruzione dell’ecologia che la mentalità moderna, tecnico-industriale ha provocato. Ma dal punto di vista cristiano bisogna domandarsi se questa situazione ha qualcosa a che vedere con la salvezza predicata da Gesù Cristo.

Cosa significa per la storia della salvezza e nella storia della salvezza che tutto il pianeta sia in pericolo di essere distrutto per la minaccia nucleare? Possiamo dire che anche la natura, intesa come ecosistema, sia salvata quando sembra caricata con i peccati di tutta l’umanità? Possiamo dire che questa realtà, che non è soltanto natura ma anche storia e cultura, è quella che ci salva in quanto essa porta in sé tutto il peso del peccato del mondo? La chiesa può dire qualcosa al riguardo o deve rimanere come semplice spettatrice?

La salvezza di cui parliamo è una salvezza incarnata nelle vicende di questo mondo. Il punto di partenza per noi è il mettere in rapporto la figura di Gesù con la natura sofferente e l’umanità sofferente che partecipa a tale oppressione.

Quindi bisogna trovare un piano di lettura non solo ontologico ma anche soteriologico. Non è il nostro principale interesse cosa siano salvezza, natura o umanità sofferente. Ma cosa rappresentano per la salvezza dell’umanità. È vero che non possiamo separare ontologia e soteriologia, ma accentuare uno di questi due aspetti è possibile.

Sul piano filosofico Lévinas tenta di dimostrare che tempo ed essere non sono le uniche categorie per approfondire l’ontologia; che c’è pure la soggettività. La nostra responsabilità presente verso gli altri in rapporto con quella di coloro che ci hanno preceduto e quella che deve venire va letta non nella visione astratta di essere e tempo, ma nella sua concretezza storica, quotidiana[1].

La Lettera ai Romani 8,21-22 afferma: «che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per ottenere la libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo, infatti, che tutta la creazione geme e soffre unitamente le doglie del parto fino al momento presente». In quanto creazione il mondo partecipa alla rigenerazione definitiva del cosmo, perché come afferma il catechismo della chiesa cattolica: «Esiste una solidarietà fra tutte le creature per il fatto che tutte hanno il medesimo Creatore e tutte sono ordinate alla sua gloria» (n. 344).

La risurrezione di Gesù non riguarda soltanto la sua persona individuale, per noi e per tutto il creato è segno di speranza e futuro. La risurrezione di Gesù è inseparabile della sua predicazione, e nella sua predicazione parlava della venuta del regno, quindi la sua morte va inseparabilmente unita all’avvento scatologico e storico del suo regno, risurrezione non significa soltanto “prova” o “consolazione”, ma diventa la piena sicurezza che lui continua la sua opera nel mondo perché è vivo.

Ora noi possiamo parlare di una “passione continuata” di Gesù nella storia: negli uomini, nella natura, nei popoli che soffrono le conseguenze della cattiveria dei potenti di questo mondo. Una lettura disincarnata del regno lega quest’ultimo a qualcosa che esiste fuori dalla storia e di conseguenza la nostra testimonianza storica non avrebbe nessun senso, in quanto la storia e la creazione sarebbero fuori di ciò che chiamiamo regno di Dio.

Quindi la missione di Gesù, compresa la sua risurrezione, è in rapporto con questo mondo e separare questi due aspetti è tradire la predicazione di Gesù. In quanto cristiani noi affermiamo che la realtà di Dio è entrata in contatto con la realtà del mondo nella persona di Gesù. In Cristo abbiamo la possibilità di partecipare simultaneamente nella realtà di Dio e nella realtà del mondo; l’una non si da senza l’altra. Non esiste dunque un cristianesimo reale fuori della realtà del mondo, e non c’è una mondanità reale fuori della realtà di Gesù Cristo. La chiesa stessa deve diventare visibile in questo mondo, non può evitare la rappresentazione spaziale. La relazione della comunità con il mondo sta dunque determinata in modo totale e assoluto dalla relazione di Dio con il mondo.

Se l’amore di Dio è implicato nella creazione, questa creazione diventa l’ambito della nostra salvezza, quindi danneggiare la creazione significa andare contro il contesto naturale in cui si verifica la nostra liberazione. Noi siamo situati a partire dalla nostra storia in un determinato contesto oggettivo di esperienza, responsabilità e decisione, al quale non possiamo sottrarci senza cadere nell’astrazione. La chiesa non deve fare altro che seguire le orme del suo maestro. La responsabilità della chiesa è dunque una responsabilità in Cristo.

Noi non possiamo opporre una teologia della creazione a una teologia della risurrezione o a una teologia dell’incarnazione. Stiamo parlando della totalità della vita di Gesù Cristo. La vita cristiana è vita con Gesù Cristo incarnato, crocifisso e risorto. Il suo mistero è presente anche nella creazione, andare contra la creazione è in qualche modo andare contro colui che l’ha creata.

Ecco perché noi cristiani non possiamo accettare che la creazione sia distrutta per l’irresponsabilità di coloro che non credono che formi parte del nostro ambito vitale. Noi abbiamo una responsabilità davanti a Dio e in favore di Dio, davanti agli uomini e in favore degli uomini.

Nella teologia di D. Bonhoeffer, la responsabilità è sempre collegata a Gesù Cristo e fa riferimento anche alla responsabilità della propria vita. La struttura della vita responsabile è determinata da un doppio elemento: dal vincolo della vita all’uomo e a Dio e dalla libertà della propria vita. Senza questo vincolo e senza questa libertà non c’è alcuna responsabilità. Il vincolo ha la figura della rappresentazione e dell’accomodazione alla realtà, la libertà si mostra nell’autoesame della vita e dell’azione e nel rischio della decisione concreta. Nessun uomo può scappare alla responsabilità e pertanto alla rappresentazione o sostituzione. Rappresentazione e, di conseguenza, responsabilità si possono verificare solo nella perfetta oblazione della propria vita agli altri. La persona responsabile non oppone alla realtà una legge estranea, ma è la condotta del responsabile che è conforme alla realtà.

È importante capire che per Bonhoeffer la realtà non è qualcosa di neutro, per lui “reale” è Dio fatto uomo. Tutto riceve da colui che è reale, cioè Gesù Cristo, il suo ultimo fondamento e la sua definitiva eliminazione, la sua giustificazione e la sua definitiva contraddizione, suo ultimo “si” e suo ultimo “no”.

Se Gesù si è consegnato in servizio agli altri nella sua totalità, ciò significa che per noi credenti responsabilità è entrare in questa dimensione di totalità, fino al punto di rischiare la propria vita. Il momento giusto della responsabilità va inteso in termini d’incontro tra libertà di Dio, la cui rivelazione abbiamo conosciuto in Gesù Cristo, e libertà dell’uomo, la cui precarietà si perfezione nella testimonianza storica.

Rahner direbbe, in una prospettiva più esistenziale, che il riferimento cristiano al futuro assoluto, Dio, non diminuisce o sopprime ma radicalizza la sua responsabilità per il futuro intramondano, in quanto l’uomo può portare a realizzazione la disponibilità dell’apertura al futuro assoluto, autentico, solo tramite una relazione allo stesso tempo critica e positiva di responsabilità e di azione per un futuro intramondano sempre nuovo.

Ma a noi è Dio che ci viene incontro. Il dono di Dio si concretizza nel Dio crocifisso. Il futuro non è costituito dalle possibilità nascoste del presente; auto-fondato in Dio, ci viene incontro come la forza della sua libertà amorosa. Il futuro promesso intreccia la libertà e l’amore di Dio con l’ingiustizia e la morte, il senso ultimo con il non-senso per mostrare la vittoria su tutto ciò che è negativo. La croce, più che figura di tragicità, è qui il grembo da cui nasce la nuova creazione[2].

Il rapporto di Gesù con il mondo
Secondo Gogarten, nell’uomo occidentale è sempre andata aumentando la consapevolezza della responsabilità per il mondo, per il suo mondo, come anche quella della sua supremazia e della sua creatività non solo in questo mondo ma anche grazie ad esso, cioè per il fatto che esso è il suo mondo. Ma vedendo in questo modo il rapporto con il mondo viene condizionato anche il rapporto con Dio.

Ad accentuare il rapporto negativo con il mondo sono state alcune correnti già presenti ai tempi di Gesù, che poi, nei primi secoli del cristianesimo, hanno interpretato a loro modo il rapporto che Gesù ha avuto con il mondo. Nella mentalità gnostica il mondo è stato creato del demiurgo, l’antidio. Quindi nascere al mondo significa nascere per la morte. Questo non significa soltanto che nel mondo esiste tra l’altro anche il male, ma che il mondo stesso, cioè il fatto del suo esistere, è il male. Ma questo noi non lo troviamo nella vita di Gesù.

È vero che in Gesù il rapporto con il mondo entra in un orizzonte totalmente nuovo. Perché Gesù reinterpreta ogni legame che il rapporto dell’uomo con Dio aveva e quel rapporto dell’uomo con il suo mondo. Gesù entra nel mondo come gli altri uomini ma porta con sé qualcosa che gli altri uomini non hanno, e questo lo fa totalmente diverso da essi. Gesù è volto ad una realtà che oltrepassa in larga misura il mondo. Infatti, in Gesù si manifesta l’uomo che nella sua natura più intima non vive del mondo ma di una realtà che è di natura tale che l’uomo non può affatto prenderne possesso. La novità in Gesù sta nel fatto che lui porta qualcosa che la logica di questo mondo non può manipolare come manipola tutte le altre realtà intramondane, Gesù viene proprio a capovolgere tutte le sicurezze dell’uomo: famiglia, proprietà, religione.

Però la cosa più interessante è che la novità portata da Gesù non è contraria al mondo, cioè Gesù non diventa un asceta, uno che odia il mondo per affermare la sua novità. Gesù porta con sé un’intima realtà che il mondo costruito dagli uomini non riuscirà mai a dare agli uomini. Questa realtà, infatti, non è una realtà tra le altre; essa è il mistero che agisce in tutto ciò che esiste, e dal quale trae la sua eterna origine tutto ciò che è. È una realtà che si possa avere come possiamo avere le altre cose del mondo, è una realtà che ci viene incontro e ci possiede, essa a noi, e non noi ad essa. Di conseguenza l’uomo Gesù introduce l’uomo padrone del mondo in una dimensione integrale e totale dell’uomo, Gesù porta con sé la realizzazione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.

Facciamo un esempio per capire meglio ciò che stiamo dicendo; nel passaggio biblico dell’uomo ricco diventa più chiara la novità di cui è portatore Gesù, cfr. Lc 18,18-23:

E un capo lo interrogò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?». Gesù gli rispose: «Perché mi dici buono? Nessuno è buono, tranne Dio. Conosci i comandamenti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non dire il falso, ama tuo padre e tua madre». Quell’uomo disse: «Tutto questo l’ho osservato fin dalla mia giovinezza». Udito ciò, Gesù gli disse: «Ti manca ancora una cosa: vendi tutto quello che hai e dàllo ai poveri, così avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi». Ma quello, udite queste parole, diventò molto triste. Era, infatti, molto ricco.

L’uomo di questa narrazione ha due cose che offre questo mondo: potere materiale e religione, ma secondo Gesù non vasto.

Conclusione
Perché l’uomo attenta contra la natura?
Perché intende spiegare la sua libertà soltanto a partire dei dati che gli vengono forniti dalla realtà intramondana e rifiuta che ci sia una realtà estranea al suo mondo che possa dare un senso di totalità alla sua umanità.
Gesù è portatore del mistero che spiega la costituzione di ogni costruzione umana. In Gesù l’uomo trova la sua piena realizzazione. Lui è vero uomo, quindi ha un rapporto reale con il mondo, ma è anche Dio quindi la sua umanità rimanda a qualcosa che oltrepassa le categorie mondane.
Secondo la mentalità cristiana, l’uomo non si deve impegnare soltanto nel fare cose nuove, ma nel fare nuove tutte le cose. Come dice lapidariamente la sacra scrittura: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
La chiesa deve trovare la sua collocazione in questo mondo, e la sua missione è quella di propiziare le condizioni perché gli uomini abbiamo un incontro con il Dio di Gesù che fa nuove tutte le cose, quindi non ha paura di partecipare nei processi storici che proteggono la natura, che intesa come creato diventa manifestazione di Dio, perché anche essa è manifestazione sacramentale intramondana dell’amore di Dio.La salvezza predicata da Gesù passa per la sofferenza dell’umanità che deve pagare le conseguenze della cattiveria dei potenti di questo mondo, passa anche per la “sofferenza” della natura. I popoli sofferenti e la natura che paga i costi dell’industrializzazione portano in sé il peso del peccato di questo mondo e in questo senso partecipano attivamente nella redenzione di questo mondo.
[1] E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di la dell’essenza, Jaca Book, Milano 2002.
[2] G. Colzani, La vita eterna. Inferno, purgatorio, paradiso, Mondadori, Milano 2001, 28.

jueves, 11 de diciembre de 2008

LEZIONE n. 8: POLITICA, ECONOMÍA, ECOLOGIA...(lezione straordinaria)

(Martedí, 11.12.08)/Aula XXVII 1ª Ora: 8,30 – 10,05 2ª Ora: 09,20 – 10,05
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.


2.4 Il vangelo della Vita predicato da Gesù

Possiamo affermare che Gesù sia stato un uomo al servizio della vita? Abbiamo diversi dati evangelici in cui notiamo la premura di Gesù nel voler comunicare la sua vita e nel diventare lui stesso uno che serve alla vita.

Lo vediamo avvicinarsi al cieco nel cammino (cfr. Mc 10,46-52), quando restituisce dignità alla samaritana (cfr. Gv 4,7-26), quando sana i malati (cfr. Mt 11,2-6), quando alimenta il popolo affamato (cfr. Mc 6,30-44), quando libera gli indemoniati (cfr. Mc 5,1-20). Nel suo Regno di vita c’è posto per tutti: mangia e beve con i peccatori (cfr. Mc 2,16), senza importargli l’essere chiamato mangione e ubriacone (cfr. Mt 11,19); tocca i lebbrosi (cfr. Lc 5,13), lascia che una prostituta unga i suoi piedi (cfr. Lc 7,36-50), invita Nicodemo a nascere di nuovo (cfr. Gv 3, 1-15).

Cosa intendiamo quando diciamo “vita”? Cosa significa “vivere”?
Una delle famose frasi di Gesù è quella in cui afferma «Io sono la via e la verità e la vita» (Gv 14,6).

Il racconto della Genesi rimanda l’origine della vita ad un soffio divino: «allora il Signore Dio modellò l’uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un alito di vita; così l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7). Invece l’origine dell’uomo nuovo in Cristo fa riferimento ad un soffio, non nel senso del racconto mitico della creazione ma in quello del credere e della comunicazione del vangelo nella dimensione della risurrezione: «Poi disse di nuovo: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. Detto ciò, soffiò su di loro e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimettete i peccati, sono loro rimessi; a chi li ritenete, sono ritenuti» (Gv 20,21-23).

Sia nella Genesi che nel vangelo di Giovanni, la vita è qualcosa di ricevuto, non dato da sé. Inoltre, nel secondo senso quello dei credenti in Cristo, la vita è legata al dono dello Spirito e consiste in donazione agli altri nella predicazione e nella testimonianza.

Ma nel comunicare il soffio di vita, Dio alle origini, e Gesù nel tempo della predicazione evangelica, fanno diventare l’uomo responsabile delle sue azioni.

In una prima analisi la vita è una forma specifica di realtà, diversa di quella dell’astro o di una pietra. La vita è una forma di realtà e di essere nella realtà. Un elemento minerale non ha la capacità di prendere coscienza del sistema complesso in cui si trova, l’uomo invece può farlo.

La nota specifica dei viventi allora è un essere sé stessi, un autós. L’essere viventi, soprattutto negli animali intelligenti, è un auto possedersi e tutto il corso della vita acquista modi diversi di auto possedersi. Quando noi diciamo la parola animale, ciò che intendiamo è che un essere possiede un’anima, l’uomo è un animale, e come tutti gli animali l’uomo sente, e sentire è avere delle impressioni. Anche gli animali non-razionali hanno delle impressioni, ma l’uomo ha l’intelligenza. Mentre gli animali percepiscono i contenuti della percezione, l’uomo è capace anche de distinguere l’alterità, cioè l’origine del contenuto percepito. L’uomo non vede soltanto delle cose ma anche la loro complessità.

Il punto a cui vogliamo arrivare è che, secondo queste generali definizioni l’uomo non può essere ridotto a cosa, senza danneggiare gravemente la sua natura. Quando la mentalità tecnico-industriale della modernità vede l’uomo come merce, come prodotto, non sta rispettando la complessità e la visione totale dell’uomo.

Come avverte Gogarten, il grande paradosso della modernità tecnico-industriale è avere ridotto l’uomo a oggetto, per questo pone un problema. Secondo questa mentalità c’è posto per l’uomo in questo mondo? Ma quale uomo? Naturalmente l’uomo “oggetto”. Quindi l’uomo vero, cioè quello totale e complesso nella sua integrità non trova posto in questo mondo. Di conseguenza lo specialista delle diverse discipline non ha diritto di parlare dell’uomo senza dirci di quale uomo sta parlando se quello totale o quello oggetto del suo studio.

Qual è il problema, dice Gogarten? Il problema è che il Dio dell’uomo oggetto è, anche esso, per forza di logica, un Dio-oggetto. Perché nella mentalità moderna non c’è posto per nessuna realtà che non sia oggetto di studio e di analisi. E se non può essere oggettivabile non può nemmeno esistere.

Ma possiamo giungere, conclude Gogarten, ad un pensiero differente —un pensiero cioè che non finisca in un solo mondo di oggetti— soltanto esponendoci alla questione sull’uomo, come oggi viene posta con estrema urgenza. Ed essa viene posta proprio nel trionfo del mondo degli oggetti sull’uomo, il quale vuole però essere soltanto uomo e può resistere soltanto nel caso che non sia più soltanto materiale in un mondo di specialisti ed esperti.

In altre parole, l’uomo non è responsabile di questo mondo soltanto nel senso di essere responsabile delle cose che esso contiene, ma poiché vivente, e anche persona (io), lui deve rispondere in prima persona, del suo essere uomo, perché solo nella sua risposta si può parlare di vera re-sponsabilità.

Diverse dimensioni della vita in Cristo
Gesù Cristo è pienezza di vita che eleva la condizione umana ad una condizione divina per la sua gloria. In Gv 10:10 noi possiamo leggere: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l' abbiano in sovrabbondanza». La sua amicizia dunque non ci chiede di rinunciare ai nostri aneliti di pienezza vitale, perché lui ama la nostra felicità nel modo in cui noi la viviamo in questa terra. Noi possiamo essere sicuri che Dio ha creato tutto non per lo sfruttamento meschino ma perché noi possiamo godere nei frutti del creato: « Ai ricchi di questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi, né di riporre le loro speranze nell’instabilità della ricchezza, ma in Dio che ci provvide abbondantemente di tutto perché ne possiamo godere» (1Tm 6, 17).
La vita di Gesù però tocca l’essere umano intero e sviluppa pienamente l’esistenza umana: nella dimensione personale, familiare, sociale e culturale. Ma per riuscire ad essere toccati da Gesù ci vuole un cambiamento nel nostro modo di contemplare la realtà, un cambiamento proprio nella nostra vita. Facendo così Gesù diventerebbe il Vivente che cammina accanto a noi, scoprendoci il senso degli avvenimenti, il dolore e la morte, l’allegria e la festa.
Ma il consumismo edonista e individualistico, che intende la vita in funzione del piacere immediato e senza limiti, oscura il senso della vita e produce il suo degrado. La vitalità che Cristo offre ci invita ad ampliare i nostri orizzonti, a riconoscere che abbracciando la croce quotidiana, entriamo nella dimensione più profonda dell’esistenza. Gesù ci previene sull’accumulazione inutile: «Non vi affannate ad accumulare tesori sulla terra» (Mt 6,19), oppure quell’altro passaggio in cui dice, «che giovamento avrà l’uomo se, avendo conquistato tutto il mondo, è danneggiato poi nella sua vita?» (Mt 16,26). Partecipar alla vita nuova in Cristo è partecipare alla vita di amore in Dio Uno e Trino. Quando siamo nati inizia la nostra partecipazione alla condizione creaturale, che poi diventa appartenenza esplicita tramite il battesimo e, infine, culmina con la risurrezione.



Al servizio di una vita piena per tutti
Ora, noi troviamo nel mondo delle situazioni che vanno contro la vita: uomini e donne abbandonati, esclusi, ignorati, lasciati soffrire nel dolore e nella miseria. Ecco allora che noi siamo chiamati a optare per una cultura di vita. Il regno predicato da Gesù è un regno di vita, è quindi incompatibile con queste situazioni umane. Se noi chiudiamo gli occhi a queste situazioni siamo anche noi promotori della cultura di morte; bisogna ricordare a questo punto le parole di 1Gv 3,14: «Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte». Partecipare alla vita in Cristo significa allora partecipare nella costruzione di un mondo più giusto.

La vita allora diventa piena solo se sviluppata nella giustizia e nella comunione fraterna. Lottare per una vita più degna secondo il disegno di Dio è un imperativo per noi. Sia il magistero sociale della chiesa, come la teologia, in particolare quella del Terzo Mondo, ci dicono che non possiamo concepire una visione cristiana senza un dinamismo di liberazione integrale, di umanizzazione, di riconciliazione e di inserzione sociale.
La vita si rinforza quando si donna e si indebolisce quando la viviamo egoisticamente, nell’isolamento sociale. Quelli che vivono più felici sono quelli che si stanno donando continuamente agli altri. Lo stesso Gesù parlava dell’importanza di condividere la propria vita: « Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25). Qui troviamo uno dei principi fondamentali della missione cristiana, il vangelo diventa vita in donazione totale.

LEZIONE n. 7: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...

(Martedí, 09.12.08)/Aula XXVII 3ª Ora: 10,20 – 11,05 4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.

Gn 2:15-17
Poi il Signore Dio prese l' uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma dell' albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, perché, nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente morire».

In questi passaggi troviamo l’armonia che ci deve essere tra Dio, la natura e l’uomo. Il mondo non può essere colto nella sua verità quando è separato dall’uomo e da Dio, quando è visto come «natura» autosufficiente e non invece come ambito di «cultura» umana e di «gloria» divina. Tutela e custode dell’equilibrio fra le parti è il comando di non mangiare dell’albero della scienza del bene e del male. Ciò non significa una divinizzazione della legge o del diritto umano ma, piuttosto, un’apertura processuale della complessa e ben articolata realtà cosmo teandrica alla dinamica storica; il complesso rapporto tra Dio, l’uomo e il mondo è custodito dal dialogo tra quel comando divino e quella libertà umana che si confrontano sulla conoscenza del bene e del male.

Il testo della Genesi vede allora la natura come contesto di realizzazione: culturale e storica. Tra le creature l’uomo è il solo animale capace di prendere distanza della natura, questo lo porta ad una tensione intramondana, e molte volte anche contro Dio stesso. Ma essendo tutte e due, natura e uomo, parte della creazione, per potere superare la tensione bisogna rimandarla alla sua origine, appunto Dio. L’uomo dovrebbe guardare il mondo non solo come un insieme di materiali utili ma come la sua casa, come quel luogo in cui la persona riesce a stabilire con il mondo un rapporto vitale, in grado di istituire significati e di dar vita a forme autentiche di gioia e di bellezza, di relazioni e di amore.

La responsabilità del mondo, intesa come cura e come consapevolezza di quello che è il bene della vita, l’umano a cui tutti attingiamo ed in cui tutti ci riconosciamo, appare come il significato più profondo e più vero del dialogo genesiaco tra la volontà/comando di Dio e la libertà umana.


Credere in un Dio creatore
Come detto prima, il problema della netta separazione tra Dio e il mondo è nato nella teologia barthiana, nella sua visione, il concetto d’universo è opposto a quello di creazione. Erano la fede e la grazia, con la mediazione della chiesa, che interessavano per raggiungere la salvezza. Per “fede” qui va intesa una fede personale, in senso «antropocentrico», quindi parziale, ma il concetto di creazione rimanda ad una visione integrale della realtà, in cui uomo, natura e Dio interagiscono; difatti, l’uomo credente abita uno spazio non solo storico-salvifico ma anche fisico, il cosmo non è opposto al suo credere, anzi è la sua «condizione situazionale»: l’uomo crede a partire da un tempo ed da un luogo precisi.

Proprio perché la realtà non nasce da sé ma viene da Dio come suo dono, l’esistere creaturale è un essere profondamente marcati dalla relazione al creatore; in questo esistere in cui Dio fonda e regge ogni cosa, Dio e il mondo stanno fra loro in un rapporto di libertà e non di necessità: il creato rimanda a Dio e rinvia alla sua libertà. Il mondo creato prende perciò il suo senso e la sua consistenza da un atto creatore, da una relazione di solidarietà di Dio con il mondo.

Per potere portare avanti il discorso sul rapporto uomo-natura-Dio, nell’orizzonte della creazione bisognava superare la visione barthiana della separazione tra Dio e natura. A Moltmann il merito di tentare di saldare meglio l’economia salvifica, di cui la creazione è parte con la vita eterna delle persone divine superando così la tradizionale opposizione tra le azioni delle relazioni trinitarie e le azioni ad extra; questa opposizione serviva in ultima analisi, perché le azioni comuni delle persone trinitarie, ad extra, siano più libere di quelle personali, perché l’onnipotenza causativa sia più libera della personale libertà di amore. La creazione sarebbe il frutto non solo di un’opera ad extra, ma anche di un’autolimitazione della Trinità, una «contrazione», sarebbe piuttosto il risultato del dinamismo tra la contrazione intra-trinitaria e il suo dilatarsi nell’amore: «Il rapporto trinitario tra Padre, Figlio e Spirito Santo è così ampio che l’intera creazione può trovare in esso spazio, tempo e libertà»[1]. È possibile dunque ritenere che la stessa vita trinitaria sia attività di verità e di amore senza limitazione alcuna. Dio non ha bisogno del mondo per agire ma è atto puro e atto puro di amore; perché allora non connettere proprio l’atto creatore, che è atto di alleanza e cioè di amore, con l’amore eterno di Dio?[2]

Così, J. Auer, fa riferimento alle parole di Tommaso: «Deus Pater operatus est creaturam per suum Verbum, quod est Filius, et per suum Amorem, qui est Spiritus Sanctus, Et secundum hoc processiones persona rum sunt rationes productionis creatura rum in quantum includunt essentialia attributa, quae sunt scientia et voluntas»[3], per dire che la questione della creazione ha a che vedere con l’amore trinitario nella sua forma estatica. La creazione diventa una «chiamata», come afferma la lettera ai Romani 4,17: Dio, «chiama le cose che non sono come se fossero». Si può dunque accettare che la creazione sia una parola, un logos. Ma a condizione che questa parola sia pronunciata dal carattere statico dell’amore. Alla radice della parola creatrice, in quanto principio c’è l’amore, ma l’amore è effusione e quindi si sta donando sempre. L’amore allora non è soltanto principio ma anche termine, o meglio ancora pienezza. Lo è in un modo assolutamente specifico: la creazione è un dare vita ad un «altro», però come diffusione di sé stesso.

In cosa si radica dunque il senso positivo della creazione? La positività della creazione sta nel fatto che, lungi dall’essere originaria, prende ad esistere in un quadro segnato dall’amore del Padre e dalla obbedienza del Figlio; in questo senso l’esistenza creaturale non solo non sta a sé ma manifesta simbolicamente la dimensione filiale, la dimensione della comunione nella obbedienza e nella dedizione al disegno del Padre. Diverso dal Padre ma uno con lui, l’auto distinzione del Figlio dal Padre è la ragione ultima di un mondo altro da Dio ma, al tempo stesso, questa autonomia rimanda alla comunione come alla sua figura compiuta.
Se Barth si era limitato a concludere che la creazione ha allora il suo scopo nell’alleanza, cioè in Cristo, K. Rahner svilupperà l’auto trascendenza del cosmo verso la sua totalità ed il suo fondamento in modo da fare della natura umana di Gesù il luogo dell’incontro della creazione con il Verbo eterno: in Gesù, infatti, la volontà divina di salvezza si esprime tanto nella sua insondabile libertà che nella sua assoluta irreversibilità. Altro rispetto al Padre, il Figlio motiva ogni esistenza altra nello stesso tempo in cui la richiama a profonda comunione[4].
[1] J. Moltmann, Trinità e Regno di Dio. La dottrina su Dio, Queriniana, Brescia 1983, 120-123.
[2] J. Auer, Il mondo come creazione, Cittadella, Assissi, 1973, 105-118.
[3] Summa Theologica I, q. 45, a. 6:
[4] K. Rahner, «Teologia dell’incarnazione», in Id., Saggi di cristologia e di mariologia, Paoline, Roma 1965, 93-121.

LEZIONE n. 8: TEOLGIA DELLA CITTÀ...

Aula XXVII (10.12.08) 3ª Ora: 11,10-11,55

MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione


2.3 Più che un territorio: la città come habitus umano

Bibliografia: J. Comblin, Teologia della città, 279-319; P. Giustiniani, «Una città dal volto umano», in Parole di Vita 32 (1987), 5-9; P. G. Bosisio, «La città per l’uomo», in Vita e Pensiero 51 (1968), 495-502; Convegno ecclesiale di Roma: «Per una città a misura d’uomo», in Il Regno-Documenti 26 (1981), 499.

Il territorio di una città non è soltanto luogo fisico-materiale, ma diventa condizione, ambiente che condetermina la vita umana: habitus.

In tempi recenti gli urbanisti hanno riscoperto una realtà trascurata por molto tempo: la città è un rapporto tra l’uomo e la natura.

Come afferma H. Jonas, facendo riferimento alla società moderna: «Infatti il confine tra “polis” e “natura” è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo un’enclave nel mondo non-umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto».

C’è stato un tentativo, col mito del ritorno alla natura (s. XVIII), che voleva compensare i difetti della decadenza umana della città moderna. Evidentemente il mito faceva più riferimento ad un’opposizione tra città e natura. Ma l’invito a ritornare a vivere in natura del mito di cui stiamo parlando non è riuscito a convincere i cittadini. Comunque ha prodotto un fenomeno molto comune ai giorni nostri: l’avere una casa in campagna, andare in vacanza in campagna, praticare l’agriturismo. Questo fenomeno è in qualche modo paradossale, perché il cittadino in principio sta fuggendo le città, ma se noi andiamo a un campeggio in state, vedremmo che diventano piccoli insediamenti cittadini, come delle piccole città. Cioè, si fanno “città provvisorie” che compensano l’inumanità delle vere città.

È giusto allora domandarsi: non era meglio portare un po’ di natura in città, come fanno sui terrazzi dei grattacieli gli abitanti dell’attuale New York? Come avverte Comblin: «la natura non dovrebbe essere la salvezza della domenica e delle vacanze. La città, l’habitat permanente dell’uomo non può separarlo dalla natura. Anzi è destinata a inserire l’uomo in essa. Non è chiamata a mascherare la natura, ma a valorizzarla. E questo evidentemente è un compito immenso»
[1].

L’uomo, anche se abita in città ha bisogno della natura. Richiederà ogni volta di più acqua, luce, riscaldamento. Però soprattutto l’uomo ha bisogno di un habitus, di un ambiente, di un paesaggio e soprattutto di un zona verde. Come avremmo occasione di vedere la progettazione delle città nella politica di Aristotele seguiva le indicazioni necessarie per rendere una città più salutare e gradevole dal punto di vista della sua collocazione. E questo principio è stato praticato anche durante il Medioevo. Ma in tempi moderni questo per tante ragioni scomparve.

Ora la città è anche, e soprattutto un luogo da abitare. Ma l’uomo non è come gli animali che per istinto si sistemano e le loro tane non cambiano con il passare degli anni. Invece l’uomo è animale più complesso. Il suo abitare un territorio diventa complesso in proporzione alle tecniche innovative che determina il modo di abitarlo. Ma la casa è innanzitutto un riparo, un rifugio contro l’intemperie (freddo, calore, pioggia, vento) e una protezione contro i nemici, animali, uomini e piante. Per milioni di persone la casa è soltanto questo. Voi direte che sono cose primitive, ma restano indispensabili, a nessuno viene in testa di dormire fuori casa a dieci gradi sotto zero. In molti paesi la realizzazioni dell’urbanesimo non riescono a seguire il ritmo di sviluppo delle necessità.

Ma crediamo che la casa non sia qualcosa che serve a seguire soltanto l’istinto di sopravvivenza. La casa è anche luogo di riposo, ufficio di lavoro. È anche uno spazio in cui interagiscono le famiglie e gli amici. Non è del tutto vero dunque che le città distruggono le famiglie. Anche se in città è anche molto forte il senso di isolamento privato. Durante il Medioevo le case erano comuni, solo gradualmente lungo la storia si sono andati valorizzando di più gli ambiti privati. Così abbiamo un altro paradosso: dalla città è venuto il culto del raccoglimento, della solitudine e dell’intimità. Difatti vi è più solitudine in città che in campagna dove tutto si sa e si diffonde.

Le città sono sorte perché in esse si concentrano le fonti di lavoro, si può dire che loro sono «la sede del lavoro». Fra i monumenti architettonici più belli della contemporaneità non è difficile trovare delle fabbriche.

In città, come ha fatto notare magnificamente M. De Certeau, la circolazione è fondamentale. La vita stessa della città dipende delle sue vie di accesso. La città è un’organizzazione di spostamenti, una rete di circolazione. Nel tempo dei computer lo spazio fisico serve per trasportare i materiali, ma la comunicazione e tantissime operazioni non hanno più bisogno dello spazio materiale, ma diventa sufficiente lo spazio cibernético. Incredibile: ciò che Comblin preconizzava negli anni settanta, oggi sembra una cosa normale, e cioè: «ci potremmo forse chiedere se per l’avvenire si può prevedere un sistema di trasmissione tanto perfezionato per cui il cittadino dalla sua casa potrà mettere in azione tutti i servizi e procurarsi tutti i beni che desidera premendo un bottone: lo spostamento fisico ridotto al minimo»
[2].

Normalmente è il centro delle città quello che è più affollato, fino a produrre ciò che viene chiamato l’esplosione del centro. La soluzione alla morte del centro delle città sta nel creare delle città polinucleari dotate di vari sensi di circolazione.

Nelle città dove i mezzi di circolazione son pessimi, sovente nelle città emergenti del terzo mondo si deve fare la fila per tutto: per prendere l’autobus, per andare in banca, per andare agli uffici pubblici, per andare in bagno. Questi affollamenti scoraggiano la vita sociale.

L’arte con cui viene costruita una città dice molto dei cittadini che abitano quella città. Si può dire che una città deve avere una personalità, un volto. Le città antiche procuravano esprimere la civiltà dei loro abitanti. Noi vediamo Roma e siamo colpiti della sua bellezza, possiamo visitare tante altre città che hanno più risorse economiche, più sviluppate tecnicamente ma non avranno mai la bellezza delle città antiche.

Gli uomini dunque non abitano soltanto le loro case. Abitano nella loro città. I rapporti dell’uomo con la natura trovano un’esperienza privilegiata nella città. Come la casa, e anche più della casa, perché, a un livello più vasto, la città è il teatro, il pubblico, il mondo famigliare che accompagna la nostra evoluzione.

Bisogna domandarsi se il senso negativo delle città trasmesso da alcuni sociologi sia tutto quello che si può dire delle città. La visione negativa delle città non esprime ciò che la città è ma il cattivo uso che ne fa l’utilitarismo contemporaneo. La città diventata megalopoli utilitarista è la fine della visione positiva della città. La città corrompe quando è stata corrotta, quando non è stata fatta per se stessa, ma per servire a volgari interessi. La città fatta per se stessa eleva e umanizza.

Perché la salvezza eterna passa attraverso la salvezza temporale. L’avvento della nuova Gerusalemme passa attraverso la costruzione della molteplicità delle città terrestri. E la salvezza delle persona umana passa attraverso la salvezza della città umana. L’uomo non vive da solo, «abita». Si salva nella salvezza del mondo a cui appartiene. Si salva salvando il suo prossimo. E il suo prossimo è questo popolo della città dove egli abita.

La città non è soltanto il luogo degli individui e delle loro associazioni, degli scambi e della comunicazione da cui procede la libertà, è anche una comunità, una comunità globale. È una totalità e non semplicemente una totalità materiale, un insieme di volumi messi in rapporto, è una totalità umana. Ma non è un superindividuo ma una comunità. Però qualcuno potrebbe chiedere: cos’è che dà coesione a tale comunità? La memoria collettiva. Una città è una specie di memoria collettiva, una memoria deposta nelle pietre e nei volumi. In senso stretto però sono i luoghi di incontro il suo supporto e la sua anima, l’incarnazione della sua totalità. È stata la costruzione dei complessi industriali che hanno distrutto questo senso comunitario delle città.

La visione comunitaria della città punta a un bene comune, nel senso di una «città armoniosa» (Péguy), un corpo armonioso dove ogni membra svolga la sua funzione, che ogni cittadino possa abitare, circolare, lavorare, ricrearsi il corpo e lo spirito.

2.4 Per una città più umana
È stato detto che uno dei punti più discussi sul tema della città è la questione della qualità di vita. L’espressione come tale prende distanza del concetto di quantità. Con l’arrivo delle megalopoli diventa evidente che c’è una disumanità imperante delle grandi città. Perciò bisogna pensare ad una visione di città che metta al centro l’uomo e non soltanto la produzione tecnico-industriale. Insomma si tratta di umanizzare le città che non è altro che farli ritornare alle loro origini. Da tempi di Aristotel si diceva che l’uomo era nato per vivere in città.

All’effimero quantitativo, al consumo esclusivamente materiale, alla logica dell’accumulazione, pare si voglia opporre il sogno e la fantasia; l’uomo d’oggi riscopre, insomma, di essere «insoddisfatto» rispetto ai soli valori della concretezza materiale. Ci vuole dunque una città dal volto più umano.

I credenti debbono trovare uno «spazio» in città. Sin dai tempi della Repubblica e la Politica del mondo greco, il culto ha avuto un ruolo centrale nella polis, ma la principale attenzione era rivolta alla sua organizzazione civile, sono messe in risalto le leggi e l’organizzazione statale, quindi il vero senso delle città è stato l’autonomia dell’uomo, della natura e delle divinità.

Quindi se i cristiani, senza perdere la loro identità e partecipando attivamente alla vita sociale, vogliono essere ascoltati debbono entrare in questo senso laico delle città. La condizione secolare diventa, come, nelle origini della chiesa, la condizione più normale della sua realizzazione nel mondo. È vero che i movimenti fondamentalisti all’interno della religione cristiana, sognano con un mondo «solo di credenti», oppure un modo dove soltanto i fondamentalisti sono i «veri uomini» in quanto credono a qualcosa. Abitare la città significa entrare in rapporto con la pluralità ed essere propositivi e non soltanto impositivi.

Quindi un equilibrio tra lo Stato e l’istituzione sociale, compressa la chiesa, ci vuole. Per generare la partecipazione dei cristiani alla configurazione della città come passo previo bisogna lavorare per creare una forte coscienza partecipativa: «democrazia, infatti, non è solo uguaglianza di tutti dinanzi ad una regola comune ma partecipazione all’impegno per il bene comune»
[3].

La partecipazione in senso stretto significa scegliere di far parte di organismi precisi ed esservi impegnati come professionisti. In questo senso i valori fondamentali ad essere sviluppati sono la libertà, la solidarietà e la corresponsabilità.

La chiesa, dunque, non deve richiudersi come il cittadino anonimo in un ambito privato. Senza volerlo, noi cristiani diventiamo gente che sempre meno ha la disponibilità per partecipare alla vita della città. La conseguenza è che la chiesa stessa diventa sempre più estranea alla storia della città e la nostra fede diventa anemica. La fede non è soltanto incontro con Dio nella preghiera, ma anche incontro di Dio che ci conduce a cambiare la nostra vita quotidiana e quella della città.
L’attenzione della chiesa, quale comunità dei credenti che vive ed opera nella storia, nei confronti della città, di ogni singola città, non è mai e non può essere un fatto contingente, ma esprime la centralità del messaggio cristiano rispetto alla storia. La laicizzazione della vita civile non può impedire questo modo proprio della chiesa. Il sogno ateo di città senza chiesa è una mera utopia che la storia dell’uomo ha ampiamente e clamorosamente sconfitto, anche ai giorni nostri.
[1] J. Comblin, Teologia della città, 280.
[2] J. Comblin, Teologia della città, 287.
[3] Convegno ecclesiale di Roma: «Per una città a misura d’uomo», in Il Regno-Documenti 26 (1981), 499.

miércoles, 3 de diciembre de 2008

LEZIONE N. 7: TEOLOGIA DELLA CITTÀ...


Aula XXVII (03.12.08) 3ª Ora: 10,20-11,05

MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione


2.2 Una visione interdisciplinare: sociologia, antropologia e filosofia della città

La città è oggetto di diverse scienze. Questo è comprensibile, perché come dice H. Jonas, le città sono state le prime manifestazioni dell’organizzazione umana, di conseguenza esse sono il simbolo della visione antropologica della realtà.

In ambito urbanistico si tenta di superare il mito della megalopoli, che almeno in teoria si pensa sia già superato.

Come giustamente afferma il Frosini, «il pericolo sempre incombente è che la misura di tutto non sia l’uomo (tutto l’uomo e tutti gli uomini), bensì che la produzione o il profitto e l’efficienza diventino le finalità e i punti di riferimento ai quali si subordina il presente e il futuro delle città» (p. 26).

Ogni volta è più diffusa l’idea che nelle megalopoli ci siano, tra un centro urbano e un altro, delle zone verdi e degli spazi di ricreazione.

La geografia urbana diventa interessante nei suoi argomenti, soprattutto se pensiamo all’evoluzione o all’involuzione del centro storico delle città o alle sue periferie. Al centro della preoccupazione di ogni geografia urbana stanno le aree metropolitane, cioè le aree di diretta influenza del massimo centro di attività di una regione (metropoli). Davanti alla crescita delle zone metropolitane, la divisione in regioni urbane diventa una necessità.

La sociologia della città penso sia una disciplina diventata indispensabile per capire i centri urbani. Anche se qualcuno rimanda la sua origine alla Germania e agli USA, in realtà, l’archeologia di questa disciplina la troviamo già nei testi di Platone e Aristotele. Non è stato Cox a parlare dell’anonimato nelle città ma Aristotele, nel libro VII,4, quando afferma: «stranieri e meteci potranno più facilmente partecipare ai diritti della cittadinanza giacché, dato l’eccessivo numero della popolazione, non è difficile passare inosservati». Comunque è giustamente a partire da questo anonimato, tipico delle grandi città, che si fa un richiamo alla responsabilità e a fare del territorio abitato non solo un ambito fisico ma anche una habitus, un luogo dove potere abitare come persone e non come semplici prodotti dell’industria della tecnica. Noi, nel corso delle lezioni avremmo presente il pensiero di Zygmunt Bauman.

Nella politica della città, l’accento va messo al rapporto dello Stato col territorio. Se noi consideriamo il modo disordinato in cui crescono le città come metafora del disordine sociale, allora bisogna dire che lo Stato ha una responsabilità nell’ordinamento e nel dovere rendere più umane le città. Se noi andiamo alle origini del concetto polis, vedremmo che lo stato è nato in concomitanza allo spostamento delle popolazioni dall’ambito rurale all’ambito urbano, quindi è stato il bisogno di regole precise nella polis ciò che ha generato la costituzione dello stato. Lo stato deve la sua esistenza alle città, servire questa deve essere il suo compito.

Infine per noi sará cara anche la visione antropologica della città, per lo meno così come la troviamo in M. De Certeau e in M. Foucault. Faremmo dei brevi passaggi sulla visione filosofica della città, anche se il nostro principale interesse e approccio comunque rimane quello teologico-pastorale.

Però prima di andare avanti vorrei tentare un secondo livello nel definire la città. Il primo livello è stato sviluppato durante la lezione n. 3, i concetti sviluppati furono quelli classici: urbs, civitas e polis.

Ora facciamo un passo in avanti cercando di capire il concetto di megalopoli.

Megalopoli

Bibliografia: G. Frosini, Babele o Gerusalemme, 26-41. Sul concetto megalopoli:
www.annodelpianetaterra.it o www.yearofplanetearth.org
; A. Petrillo, Villaggi, città, megalopoli, Carocci, Roma 2006.

Termine di origine greca (da megas, “grande”; polis, “città”) utilizzato per la prima volta in ambito geografico nel 1961 dal geografo francese Jean Gottmann nel volume Megalopoli. È considerata megalopoli un’area urbana di 5 milioni di abitanti. Gli scienziati stimano che nel 2015 il mondo avrà 60 megalopoli dove vivranno più di 600 milioni di persone in totale.

Esse sono sedi di interazioni intense e complesse tra i diversi processi demografici, sociali, politici, economici ed ecologici. Nel mondo in via di sviluppo le megalopoli crescono più velocemente delle loro infrastrutture.

Le megalopoli ospitano un’umanità varia, fatta di persone diverse che coesistono le une accanto alle altre.

La megalopoli custodisce un tesoro in termini di abbondanza di professionalità e di competenze, di creatività, di interazione sociale e di diversità culturale.

Megalopoli significa però anche un rischio per il pianeta. Queste città gigantesche sono sempre più vulnerabili, perché in esse spesso si annidano sacche di grande povertà, crescono le disuguaglianze sociali e aumenta il degrado ambientale, elementi tutti interconnessi da un sistema complesso di beni e servizi. La densità della popolazione aumenta la vulnerabilità delle megalopoli a rischi naturali e antropici; per questa ragione esse sono sia vittime che produttori di rischio, in quanto esposte all’ambiente globale e ai cambiamenti socio-economici e politici ai quali esse stesse contribuiscono.

Le megalopoli sono il luogo ideale dove sociologi, scienziati della terra, ambientalisti e medici possono studiare l’impatto delle attività socio-economiche e politiche inerenti i cambiamenti ambientali (e viceversa), e trovare le soluzioni ai problemi più gravi. Per queste ragioni l’attività di ricerca nel settore delle megalopoli possono contribuire, in maniera sostanziale, a promuovere la giustizia e la pace globale e quindi la prosperità nel mondo.

La qualità di vita per molti abitanti delle megalopoli è solitamente bassa e ciò vale sia per i poveri, sia per i ricchi. L’inquinamento dell’aria, dell’acqua e dei suoli, la scarsità di acqua e di energia, il traffico congestionato, i problemi ambientali che influiscono sulla salute, gli spazi verdi limitati, la povertà e la malnutrizione, la sicurezza sociale ed i problemi di sicurezza pubblica sono tutti fattori che pesano fortemente sulle persone, condizionandole.

Ecco alcuni punti di domanda per le nostre ricerche: (a) Che cos’è, per i residenti di determinate megalopoli, la qualità della vita e in particolare che cosa pensano, cosa desiderano e quali sono le loro esigenze? (b) Come si può monitorare la «qualità della vita», prendendo in considerazione l’unicità dei valori presenti nei sistemi socio culturali? (c) In che modo le megalopoli potranno trasformarsi in ambienti umani più competitivi, creativi e attraenti e al contempo essere luoghi più sicuri dove vivere?

La crisi urbana, come ricorda A. Petrillo, non è soltanto una crisi tra le altre crisi, lui la chiama «la crisi delle crisi», cioè il momento storico verso cui sembrano precipitare e convergere tutte le precedenti contraddizioni e i passaggi critici della storia dell’urbanesimo moderno. La dialettica tra prodotto artificiale e natura sfiora il suo punto massimo.

LEZIONE N. 6: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...

[lezione non ancora corretta]
(Martedí, 25.11.08)/Aula XXVII 3ª Ora: 10,20 – 11,05 4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.

2. IL VANGELO DELLA VITA E LA TEOLOGIA DELLA NATURA

2.1 La visione «antiquata» del mondo e il «principio responsabilità»

La tesi sulla visione antiquata del mondo è una lettura critica della seconda e terza rivoluzione industriale, rispettivamente, quella che avviene con l'introduzione dell'elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio, e quella che è arrivata con l’avvenimento dei computer e con lo spazio cibernetico. Tratta dunque sulle metamorfosi dell’anima nell’epoca della seconda e terza rivoluzione industriale. La tesi è avanzata dal filosofo ed scrittore tedesco Günther Anders nel 1956.

Secondo Anders, la nostra illimitata libertà di creare sempre nuove cose ci ha portati a creare un tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra vita, seguendo di lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici.


Prometeo, il mito:

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dèi, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scuoiò e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formare due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra, Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dèi) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò.

Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano.

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efeso di fabbricare una donna di creta, ai quattro Venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermete. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni de Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato, Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoi gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso.

Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella: la prima di una lunga serie di donne come lei. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affligere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali. Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio.

Secondo G. Anders, gli uomini hanno fatto degli strumenti degni di grande stupore, come il gesto di andare a recuperare il fuoco degli uomini all’Olimpo, ma come Prometeo, hanno dovuto patire le conseguenze del loro gesto; con l’aprirsi del vaso di Pandora, si sono moltiplicati i mali nel mondo. Comunque rimane la Speranza che ha evitato il suicidio di tutti gli uomini.

Quindi lui chiama «dislivello prometeico» l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, distanza che si fa ogni giorno più grande.

È ben vero, dice l’autore, che possiamo fare la bomba all’idrogeno, ma non siamo in grado di raffigurarci le conseguenze di quel che noi stessi abbiamo fatto. E allo stesso modo il nostro sentire arranca dietro al nostro agire: con le bombe possiamo distruggere centinaia di migliaia di uomini, ma non compiangerli o rimpiangerli.

A causa del «dislivello prometeico» la nostra propria metamorfosi è in ritardo; la nostra anima è rimasta molto indietro in confronto al punto a cui è arrivata la metamorfosi dei nostri prodotti, ossia del nostro mondo.

«Vergogna prometeica»: è la vergogna che si prova di fronte all’“umiliante” altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi. È ciò che ci fa sentire antiquati.

«Fierezza prometeica»: consiste nel rifiuto di essere debitori di qualche cosa, persino di se stessi, ad altri.

«Orgoglio prometeico»: consiste nel dovere tutto, persino se stessi, esclusivamente a se stessi.

In certo qual modo Prometeo ha riportato una vittoria troppo trionfale, tanto trionfale che ora, messo a confronto con la sua propria opera, comincia a deporre l’orgoglio che gli era tanto naturale nel secolo passato e comincia a sostituirlo con il senso della propria inferiorità e meschinità. «Chi sono mai? —domanda il Prometeo del giorno d’oggi, il nano di corte del suo proprio parco macchine, chi sono io mai?».

Il desiderio dell’uomo odierno di diventare un selfmade man, un prodotto, va visto dunque su questo sfondo mutato: Non già perché non sopporta più nulla che egli stesso non abbia fatto, vuole fare se stesso; ma perché non vuole essere qualche cosa di non-fatto. Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (Dio, dèi, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati. C’è, dunque, uno «scambio tra fattore e cosa fatta», cioè tra creatore e creato.

Sembrerebbe che il punto centrale dell’attenzione della società non sia l’uomo in quanto creatore ma le cose che lui ha disegnato. Di conseguenza la libertà cambia i ruoli: libere sono le cose; mancante di libertà è l’uomo.

Infelice diventa l’uomo, perché quanto più numerosa e più complicata diventa la burocrazia dei suoi apparecchi, da lui stesso creata, tanto più vani diventano i suoi tentativi di restare all’altezza.

Arriva al punto di pensare ad una Human Engineering, una ingegneria umana, che possa superare il suo essere nato in modo determinato e non avere la possibilità di alcun cambiamento sostanziale della sua forma originaria.

Se l’uomo soffre di senso di inferiorità di fronte alle sue macchine, ciò avviene in primo luogo perché, nei suoi tentativi di adeguarsi alle sue macchine e di fare di se stesso una parte di questa o di quella macchina, deve constatare che egli costituisce una materia prima di pessima qualità.

(1) Ma ciò deriva appunto dal fatto che, invece di essere una reale materia prima, egli «disgraziatamente» è già morfologicamente fisso, perché è già preformato

Questo suo «essere modellato erroneamente» rappresenta il suo difetto capitale, quindi anche il motivo principale della sua «vergogna prometeica». Ma soltanto quello principale. Perché le deficienze di cui «si vergogna» sono numerose.

(2) Se il primo punto della vergogna è l’essere nato, quindi fatto erroneamente. La seconda inferiorità è dell’uomo nel confronto delle macchine è che si deteriora facilmente ed è escluso della «reincarnazione industriale», cioè: l’esistenza in serie dei prodotti.

L’uomo tenta attualmente di clonarsi per riuscire a perpetuarsi. Ma nel senso in cui stiamo parlando si può pensare che a nessuno è concesso la possibilità di sopravvivere a se stesso in forma di un nuovo esemplare, come alla lampadina elettrica, insomma, dobbiamo continuare a portare a compimento il tempo che ci è destinato in antiquata unicità. Noi siamo come si dice dei «pezzi unici».

Bisogna trovare una via di uscita a questi problemi. Una prima risposta la troviamo nella morale planetaria, di cui abbiamo già parlato. Ma pensiamo pure alla proposta di H. Jonas, sul principio-responsabilità.

Il principio responsabilità

Punto di partenza: La consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, o che questa si è indissolubilmente congiunta a quelle.

La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato con il suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più grande sfida che sia mai venuta all’essere umano dal suo stesso agire.

La visione etica di H. Jonas non cerca di argomentare soltanto sul destino umano, ma anche sull’immagine dell’uomo, non parla soltanto di sopravvivenza fisica ma anche di integrità dell’essere, l’etica che ha la funzione di salvaguardare entrambe.

Fa perno alla sua proposta il tema della responsabilità. Certo non è un fenomeno nuovo in ambito morale, ma nei giorni odierni la responsabilità diventa essenziale.

Il punto, dice Jonas, è che in seguito a determinati sviluppi del nostro potere si è trasformata la natura dell’agire umano, e poiché l’etica ha a che fare con l’agire, ne deduce che il mutamento nella natura dell’agire umano esige anche un mutamento nell’etica.

I poteri che ha in mente sono sempre quelli della tecnica moderna. Di conseguenza il suo primo obiettivo è domandare in quale modo questa tecnica influisca sulla natura del nostro agire modificandola, in quale misura essa renda, sotto il suo dominio, l’agire diverso da ciò che è stato nel corso di tutti i tempi. Poiché l’uomo, attraverso tutte queste epoche, non è mai stato privo di tecnica, il suo interrogativo verte sulla differenza umana della tecnica moderna da ogni tecnica precedente.

Se la novità del nostro agire esige un’etica nuova di estesa responsabilità, proporzionata alla portata del nostro potere, essa richiede, proprio in nome di quella responsabilità, anche un nuovo genere di umiltà: un’umiltà indotta, non dalla limitatezza, ma dalla grandezza abnorme del nostro potere, che si manifesta nell’eccesso del nostro potere di fare rispetto al nostro potere di prevedere e al nostro potere di valutare e giudicare.

Alcune osservazioni fatte da Jonas:
(1) Il confine tra polis e natura è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo un’enclave nel mondo non-umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto.
(2) Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente: include nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà.

(3) Il nuovo imperativo si rivolge molto di più alla politica pubblica che non al comportamento privato, che non è la dimensione causale alla quale sia applicabile. L’imperativo categorico kantiano era diretto all’individuo e il suo criterio era nel presente.

(4) Prima abbiamo «neutralizzato» la natura e poi anche l’uomo; ora tremiamo nella nudità di un nichilismo nel quale il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi.

La domanda è radicale: perché mai l’uomo ci dovrebbe essere?
Se vi aggiungiamo l’amore, la responsabilità viene elevata dalla dedizione della persona che impara a temere per la sorte di chi è degno di esistere e di essere amato. Quando oggi parliamo della necessità di un’etica della responsabilità futura intendiamo proprio questo tipo di responsabilità e di senso della responsabilità, non la vuota “responsabilità” formale di ogni agente per la sua azione.

Importante non dimenticare che soltanto chi detiene una responsabilità può agire in modo responsabile. Di fatto, Abele domanda: Sono forse il custode del mio fratello? Ma Dio non lo vuole accusare di irresponsabile ma di fratricidio.

L’uomo ci dovrebbe essere, secondo la tesi di Jonas, la moralità intessa in termini di responsabilità non è altro che il complemento morale alla costituzione ontologica della nostra temporalità. Detto in modo semplice, quello che noi siamo e abbiamo nel presente è legato a quello che hanno fatto i nostri predecessori e, quindi, quello che noi facciamo al presente avrà anche un influsso in quelli che verranno nel futuro: «il futuro non è meno ma neanche più “se stesso” di quanto lo fosse ogni epoca passata».

La responsabilità è anche correlata al potere: più potere ha l’uomo su una realtà più responsabilità ha su di essa. In questo modo quello che Kant diceva, cioè «puoi, dunque devi», diventa: «devi, dunque fai, dunque puoi», ossia, l’esorbitante potere dell’uomo deve manifestarsi anche a livello morale. Il respiro di un neonato rivolge a tutti noi un «devi» affinché ci prendiamo cura di lui. I restanti animali appena nati devono cercarsi da loro il proprio sostento, nel caso dell’uomo deve per forza essere alimentato. In questo caso il bambino neonato non «implora» all’ambiente («prendetevi cura di me»), e neppure si parla qui di compassione o misericordia, qui il dovere degli altri verso il bambino è immanente ed evidente.

Di conseguenza, il lattante con il suo dover essere, che si manifesta in ogni suo respiro, diventa il dover fare transitivo di altri che soli possono favorire costantemente la pretesa, consentendo che l’umanità possa realizzare il suo scopo (teleologia). La responsabilità dunque deriva dalla paternità/maternità dell’essere, della quale, oltre ai genitori di fatto, sono partecipi tutti coloro che aderiscono all’origine della procreazione, non revocandone il fiat nel caso proprio, quindi tutti coloro che si concedono alla vita; in breve, la famiglia umana. Di questo principio deve partecipare anche lo stato, chiamato ad assicurare la vita dei cittadini non la sua morte.

In conclusione, il sí all’essere è un reclamo dall’uomo in nome della totalità delle cose.

Facendo ricorso alla «nobile menzogna», di cui Parla Platone nella Repubblica, Jonas sostiene che questa potrebbe essere anche una via di uscita: se la verità sulla catastrofe ecologica, politica ed economica è dura da sopportare, deve venire in soccorso una buon menzogna. Ma poi aggiunge, che forse anche una verità terribile è in grado di entusiasmare, non soltanto i pochi ma in definitiva anche i molti. Queste ritiene sia la speranza migliore nei tempi bui. Come già accaduto del mito di Prometeo, insieme ai mali liberati da Pandora quando ha aperto il vaso che non doveva aprire, c’era anche la speranza, che disse una bugia agli uomini perché non si uccidessero, però qui la differenza, secondo Jonas, è che la speranza non mente agli uomini, ma dice la terribile verità della loro pazzia tecnico-industriale, cercando sempre lo stesso scopo: evitare loro suicidio.

2.2 La creazione

Nelle lezione precedenti abbiamo messo in rapporto i concetti uomo-natura. Il punto di partenza è stato la critica alla società moderna, industriale e tecnologica, nella sua forma ideologica, cioè quella che mette in pericolo all’uomo stesso e la terra nella sua totalità. Ma è stato un discorso più accentuato in senso filosofico. Ora nel cercare una via di risposta alla crisi ci siamo affidati alla tesi di H. Jonas, secondo la quale, un problema così grande ha bisogno di una risposta etica proporzionata, dunque ci vuole una etica della responsabilità e quindi anche una morale planetaria, perché è tutto il pianetta ad essere in pericolo. Ora vogliamo entrare in un discorso più teologico.

Di fatti il concetto di creazione mette in rapporto tre elementi, cioè: Dio-uomo-mondo.

La prima cosa che viene in mente è l’accusa secondo la quale è stata proprio la mentalità giudeo-cristiana una delle cause che ha provocato l’aggressione contra la natura [cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione, 93]. Da questa prima affermazione passano a collegare, in modo causale, la mentalità cristiana —tipicamente occidentale— con il degrado del Terzo Mondo, cioè i paese da loro colonizzati. Ma la questione, secondo me, è più complessa. Comunque il punto spinge certamente a chiarire due questioni: da una parte, il fatto che i miti biblici che raccontano l’origine della creazione non debbono essere ristretti al racconto della Genesi, quindi andrebbero completati con altri passi della Sacra Scrittura; da un’altra parte, si può dire che quella mentalità occidentale, che sotto l’influsso della mentalità tecnocratica e facendosi pure chiamare «cristiana», ha depredato e depreda la natura, non può che essere una falsa religione, quindi un’idolatria.


2.3 Il rispetto della natura nell’AT

La nostra tesi è che non si possa concludere un’antropologia depredatoria del dato biblico, anche se nessuno può negare che ci possa essere o che sia stato, lungo la storia, un utilizzo ideologico della visione giudeo-cristiana della natura e della creazione.

Questo fa pensare non a una lettura che circoscriva il tema biblico del rapporto uomo-natura-religione al solo libro della Genesi, bisogna legger il fenomeno nell’ambito complesso di tutta la storia della salvezza, come narrata negli altri testi biblici.

Il tema giudeo-cristiano del rapporto uomo-natura-Dio è complesso: passa dalla protesta di Giobbe fino alla creazione in Cristo di Paolo e Giovanni. Non si tratta di un rapporto pacifico, ma è un rapporto che, anche se visto negativamente, manifesta il rispetto della libertà delle parti. Quindi non è un caso che la lettera ai Romani, 8:19-22 parli di una liberazione del creato nella sua complessità: L' attesa spasmodica delle cose create sta infatti in aspettativa della manifestazione dei figli di Dio. Le cose create infatti furono sottoposte alla caducità non di loro volontà, ma a causa di colui che ve le sottopose, nella speranza, che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per ottenere la libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo, infatti, che tutta la creazione geme e soffre unitamente le doglie del parto fino al momento presente.

Il racconto mitico della creazione della Genesi e la sottomissione della natura che ivi si trova, non può spiegare da solo la complessità storico-salvifica del creato nel senso in cui lo troviamo nell’insieme dei testi biblici.

Quando la Genesi parla della sottomissione della creazione all’uomo lo fa in un modo preciso, dicendo che l’uomo è stato creato a immagine di Dio, affermando ciò si dice che l’uomo non può andare contro il proietto della creazione, se non nel caso in cui rompe la sua alleanza con Dio e la sua armonia con la natura. Il piano di Dio mettendo a capo della creazione all’uomo non può essere la distruzione della natura, anche se questa scelta supponga il rischio di una deviazione delle scelte da parte dell’uomo, in tal caso si dimostra proprio che si tratta di un essere libero.

Ma questa è solo una parte dell’analisi. Il piano della creazione ha come apice non l’Adamo dell’Eden, ma Gesù, che giustamente viene chiamato il secondo Adamo, che è pure un uomo ma che ha saputo riconciliare l’intera realtà intra-mondana.

In felice espressione di Moltmann la terra è di Dio. L’accentuazione non va messa dunque soltanto su Gn 1:26, dove l’uomo-immagine di Dio è chiamato a «dominare» il creato, ma su Gn 2:15, dove si dice che «il Signore Dio prese l' uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse». La signoria umana non può allora ridurre il mondo alla sua sola utilità ma deve rispettarlo e promuoverlo nella sua totalità e nella sua integrità: lo deve fare perché, prima di essere suo, il mondo è di Dio.

Il passaggio fondamentale della Genesi per capire la tensione-armonia tra Dio-natura-uomo è quello che parla sull’albero situato al centro dell’Eden.

Gn 2:8-9
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l' uomo che aveva modellato. Il Signore Dio fece spuntare dal terreno ogni sorta d' alberi, attraenti per la vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita nella parte più interna del giardino, insieme all'albero della conoscenza del bene e del male.

Quest’albero della conoscenza del bene e del male è al centro del giardino ed è pure il punto in cui uomo e donna si giocano la loro storia futura. È, possiamo dire il «luogo delle scelte»: la natura fa di luogo dell’incontro tra la libertà dell’uomo e quella di Dio.

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