jueves, 11 de diciembre de 2008

LEZIONE n. 8: TEOLGIA DELLA CITTÀ...

Aula XXVII (10.12.08) 3ª Ora: 11,10-11,55

MLE2005 Teologia della città: sfide per la pastorale e per la missione


2.3 Più che un territorio: la città come habitus umano

Bibliografia: J. Comblin, Teologia della città, 279-319; P. Giustiniani, «Una città dal volto umano», in Parole di Vita 32 (1987), 5-9; P. G. Bosisio, «La città per l’uomo», in Vita e Pensiero 51 (1968), 495-502; Convegno ecclesiale di Roma: «Per una città a misura d’uomo», in Il Regno-Documenti 26 (1981), 499.

Il territorio di una città non è soltanto luogo fisico-materiale, ma diventa condizione, ambiente che condetermina la vita umana: habitus.

In tempi recenti gli urbanisti hanno riscoperto una realtà trascurata por molto tempo: la città è un rapporto tra l’uomo e la natura.

Come afferma H. Jonas, facendo riferimento alla società moderna: «Infatti il confine tra “polis” e “natura” è stato cancellato. La città degli uomini, un tempo un’enclave nel mondo non-umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto».

C’è stato un tentativo, col mito del ritorno alla natura (s. XVIII), che voleva compensare i difetti della decadenza umana della città moderna. Evidentemente il mito faceva più riferimento ad un’opposizione tra città e natura. Ma l’invito a ritornare a vivere in natura del mito di cui stiamo parlando non è riuscito a convincere i cittadini. Comunque ha prodotto un fenomeno molto comune ai giorni nostri: l’avere una casa in campagna, andare in vacanza in campagna, praticare l’agriturismo. Questo fenomeno è in qualche modo paradossale, perché il cittadino in principio sta fuggendo le città, ma se noi andiamo a un campeggio in state, vedremmo che diventano piccoli insediamenti cittadini, come delle piccole città. Cioè, si fanno “città provvisorie” che compensano l’inumanità delle vere città.

È giusto allora domandarsi: non era meglio portare un po’ di natura in città, come fanno sui terrazzi dei grattacieli gli abitanti dell’attuale New York? Come avverte Comblin: «la natura non dovrebbe essere la salvezza della domenica e delle vacanze. La città, l’habitat permanente dell’uomo non può separarlo dalla natura. Anzi è destinata a inserire l’uomo in essa. Non è chiamata a mascherare la natura, ma a valorizzarla. E questo evidentemente è un compito immenso»
[1].

L’uomo, anche se abita in città ha bisogno della natura. Richiederà ogni volta di più acqua, luce, riscaldamento. Però soprattutto l’uomo ha bisogno di un habitus, di un ambiente, di un paesaggio e soprattutto di un zona verde. Come avremmo occasione di vedere la progettazione delle città nella politica di Aristotele seguiva le indicazioni necessarie per rendere una città più salutare e gradevole dal punto di vista della sua collocazione. E questo principio è stato praticato anche durante il Medioevo. Ma in tempi moderni questo per tante ragioni scomparve.

Ora la città è anche, e soprattutto un luogo da abitare. Ma l’uomo non è come gli animali che per istinto si sistemano e le loro tane non cambiano con il passare degli anni. Invece l’uomo è animale più complesso. Il suo abitare un territorio diventa complesso in proporzione alle tecniche innovative che determina il modo di abitarlo. Ma la casa è innanzitutto un riparo, un rifugio contro l’intemperie (freddo, calore, pioggia, vento) e una protezione contro i nemici, animali, uomini e piante. Per milioni di persone la casa è soltanto questo. Voi direte che sono cose primitive, ma restano indispensabili, a nessuno viene in testa di dormire fuori casa a dieci gradi sotto zero. In molti paesi la realizzazioni dell’urbanesimo non riescono a seguire il ritmo di sviluppo delle necessità.

Ma crediamo che la casa non sia qualcosa che serve a seguire soltanto l’istinto di sopravvivenza. La casa è anche luogo di riposo, ufficio di lavoro. È anche uno spazio in cui interagiscono le famiglie e gli amici. Non è del tutto vero dunque che le città distruggono le famiglie. Anche se in città è anche molto forte il senso di isolamento privato. Durante il Medioevo le case erano comuni, solo gradualmente lungo la storia si sono andati valorizzando di più gli ambiti privati. Così abbiamo un altro paradosso: dalla città è venuto il culto del raccoglimento, della solitudine e dell’intimità. Difatti vi è più solitudine in città che in campagna dove tutto si sa e si diffonde.

Le città sono sorte perché in esse si concentrano le fonti di lavoro, si può dire che loro sono «la sede del lavoro». Fra i monumenti architettonici più belli della contemporaneità non è difficile trovare delle fabbriche.

In città, come ha fatto notare magnificamente M. De Certeau, la circolazione è fondamentale. La vita stessa della città dipende delle sue vie di accesso. La città è un’organizzazione di spostamenti, una rete di circolazione. Nel tempo dei computer lo spazio fisico serve per trasportare i materiali, ma la comunicazione e tantissime operazioni non hanno più bisogno dello spazio materiale, ma diventa sufficiente lo spazio cibernético. Incredibile: ciò che Comblin preconizzava negli anni settanta, oggi sembra una cosa normale, e cioè: «ci potremmo forse chiedere se per l’avvenire si può prevedere un sistema di trasmissione tanto perfezionato per cui il cittadino dalla sua casa potrà mettere in azione tutti i servizi e procurarsi tutti i beni che desidera premendo un bottone: lo spostamento fisico ridotto al minimo»
[2].

Normalmente è il centro delle città quello che è più affollato, fino a produrre ciò che viene chiamato l’esplosione del centro. La soluzione alla morte del centro delle città sta nel creare delle città polinucleari dotate di vari sensi di circolazione.

Nelle città dove i mezzi di circolazione son pessimi, sovente nelle città emergenti del terzo mondo si deve fare la fila per tutto: per prendere l’autobus, per andare in banca, per andare agli uffici pubblici, per andare in bagno. Questi affollamenti scoraggiano la vita sociale.

L’arte con cui viene costruita una città dice molto dei cittadini che abitano quella città. Si può dire che una città deve avere una personalità, un volto. Le città antiche procuravano esprimere la civiltà dei loro abitanti. Noi vediamo Roma e siamo colpiti della sua bellezza, possiamo visitare tante altre città che hanno più risorse economiche, più sviluppate tecnicamente ma non avranno mai la bellezza delle città antiche.

Gli uomini dunque non abitano soltanto le loro case. Abitano nella loro città. I rapporti dell’uomo con la natura trovano un’esperienza privilegiata nella città. Come la casa, e anche più della casa, perché, a un livello più vasto, la città è il teatro, il pubblico, il mondo famigliare che accompagna la nostra evoluzione.

Bisogna domandarsi se il senso negativo delle città trasmesso da alcuni sociologi sia tutto quello che si può dire delle città. La visione negativa delle città non esprime ciò che la città è ma il cattivo uso che ne fa l’utilitarismo contemporaneo. La città diventata megalopoli utilitarista è la fine della visione positiva della città. La città corrompe quando è stata corrotta, quando non è stata fatta per se stessa, ma per servire a volgari interessi. La città fatta per se stessa eleva e umanizza.

Perché la salvezza eterna passa attraverso la salvezza temporale. L’avvento della nuova Gerusalemme passa attraverso la costruzione della molteplicità delle città terrestri. E la salvezza delle persona umana passa attraverso la salvezza della città umana. L’uomo non vive da solo, «abita». Si salva nella salvezza del mondo a cui appartiene. Si salva salvando il suo prossimo. E il suo prossimo è questo popolo della città dove egli abita.

La città non è soltanto il luogo degli individui e delle loro associazioni, degli scambi e della comunicazione da cui procede la libertà, è anche una comunità, una comunità globale. È una totalità e non semplicemente una totalità materiale, un insieme di volumi messi in rapporto, è una totalità umana. Ma non è un superindividuo ma una comunità. Però qualcuno potrebbe chiedere: cos’è che dà coesione a tale comunità? La memoria collettiva. Una città è una specie di memoria collettiva, una memoria deposta nelle pietre e nei volumi. In senso stretto però sono i luoghi di incontro il suo supporto e la sua anima, l’incarnazione della sua totalità. È stata la costruzione dei complessi industriali che hanno distrutto questo senso comunitario delle città.

La visione comunitaria della città punta a un bene comune, nel senso di una «città armoniosa» (Péguy), un corpo armonioso dove ogni membra svolga la sua funzione, che ogni cittadino possa abitare, circolare, lavorare, ricrearsi il corpo e lo spirito.

2.4 Per una città più umana
È stato detto che uno dei punti più discussi sul tema della città è la questione della qualità di vita. L’espressione come tale prende distanza del concetto di quantità. Con l’arrivo delle megalopoli diventa evidente che c’è una disumanità imperante delle grandi città. Perciò bisogna pensare ad una visione di città che metta al centro l’uomo e non soltanto la produzione tecnico-industriale. Insomma si tratta di umanizzare le città che non è altro che farli ritornare alle loro origini. Da tempi di Aristotel si diceva che l’uomo era nato per vivere in città.

All’effimero quantitativo, al consumo esclusivamente materiale, alla logica dell’accumulazione, pare si voglia opporre il sogno e la fantasia; l’uomo d’oggi riscopre, insomma, di essere «insoddisfatto» rispetto ai soli valori della concretezza materiale. Ci vuole dunque una città dal volto più umano.

I credenti debbono trovare uno «spazio» in città. Sin dai tempi della Repubblica e la Politica del mondo greco, il culto ha avuto un ruolo centrale nella polis, ma la principale attenzione era rivolta alla sua organizzazione civile, sono messe in risalto le leggi e l’organizzazione statale, quindi il vero senso delle città è stato l’autonomia dell’uomo, della natura e delle divinità.

Quindi se i cristiani, senza perdere la loro identità e partecipando attivamente alla vita sociale, vogliono essere ascoltati debbono entrare in questo senso laico delle città. La condizione secolare diventa, come, nelle origini della chiesa, la condizione più normale della sua realizzazione nel mondo. È vero che i movimenti fondamentalisti all’interno della religione cristiana, sognano con un mondo «solo di credenti», oppure un modo dove soltanto i fondamentalisti sono i «veri uomini» in quanto credono a qualcosa. Abitare la città significa entrare in rapporto con la pluralità ed essere propositivi e non soltanto impositivi.

Quindi un equilibrio tra lo Stato e l’istituzione sociale, compressa la chiesa, ci vuole. Per generare la partecipazione dei cristiani alla configurazione della città come passo previo bisogna lavorare per creare una forte coscienza partecipativa: «democrazia, infatti, non è solo uguaglianza di tutti dinanzi ad una regola comune ma partecipazione all’impegno per il bene comune»
[3].

La partecipazione in senso stretto significa scegliere di far parte di organismi precisi ed esservi impegnati come professionisti. In questo senso i valori fondamentali ad essere sviluppati sono la libertà, la solidarietà e la corresponsabilità.

La chiesa, dunque, non deve richiudersi come il cittadino anonimo in un ambito privato. Senza volerlo, noi cristiani diventiamo gente che sempre meno ha la disponibilità per partecipare alla vita della città. La conseguenza è che la chiesa stessa diventa sempre più estranea alla storia della città e la nostra fede diventa anemica. La fede non è soltanto incontro con Dio nella preghiera, ma anche incontro di Dio che ci conduce a cambiare la nostra vita quotidiana e quella della città.
L’attenzione della chiesa, quale comunità dei credenti che vive ed opera nella storia, nei confronti della città, di ogni singola città, non è mai e non può essere un fatto contingente, ma esprime la centralità del messaggio cristiano rispetto alla storia. La laicizzazione della vita civile non può impedire questo modo proprio della chiesa. Il sogno ateo di città senza chiesa è una mera utopia che la storia dell’uomo ha ampiamente e clamorosamente sconfitto, anche ai giorni nostri.
[1] J. Comblin, Teologia della città, 280.
[2] J. Comblin, Teologia della città, 287.
[3] Convegno ecclesiale di Roma: «Per una città a misura d’uomo», in Il Regno-Documenti 26 (1981), 499.

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