lunes, 13 de octubre de 2008

LEZIONE n. 2: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...

LEZIONE Nº 2

(14.10.08)
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.


b) TEOLOGIA DELLE REALTÀ TERRESTRI

I diversi aspetti di cui ci occuperemmo in questo corso li affrontiamo nella prospettiva della teologia delle realtà terrene. Bisogna capire però, cosa si intende quando si parla di realtà terrene, meglio ancora, noi dobbiamo situare nell’insieme del dibattito teologico questa teologia delle realtà terrene.

Pensiamo la genealogia della teologia delle realtà terrene è nata nel dialogo critico con la teologia dialettica di K. Barth —in modo particolare come è presentata nella La lettera ai Romani, nella quale possiamo notare un netto distacco tra le realtà mondane e il suo creatore. Questa chiara separazione voluta da Barth diventa più sfumata nella sua Dogmatica Ecclesiale, in essa la separazione non è così forte come nel suo scritto sulla Lettera ai Romani, allora la sua dialettica si orienta verso una teologia della parola.

Gibellini (citando Dembowski) offre una sintesi che a noi risulta utile per capire il perché si sia arrivati ad una teologia delle realtà terrene:
«nel periodo dialettico dell’Epistola valgono le seguenti affermazioni centrali: (a) Dio è Dio, e non è il mondo; (b) il mondo è mondo, e non è Dio, e nessuna via conduce dal mondo a Dio; (c) se Dio incontra il mondo —ed è questo il grande tema della teologia cristiana— questo incontro è Krisis, è giudizio, è un toccare il mondo a guisa di tangente, che delimita e separa il mondo nuovo dal mondo vecchio; — nel periodo della Dogmatica vanno prendendo consistenza le seguenti affermazioni centrali: (a) Dio è Dio, ma è Dio per il mondo: al Dio che è il totalmente Altro subentra la figura di Dio che si fa vicino al mondo; (b) il mondo è mondo, ma è un mondo amato da Dio: si passa dal concetto dell’infinita differenza qualitativa ai concetti di alleanza, riconciliazione, redenzione, come concetti-chiave del discorso teologico; (c) Dio incontra il mondo nella sua Parola, in Gesù Cristo: ne consegue la concentrazione cristologica che subentra all’impostazione escatologica del periodo dialettico» [R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, 27-28]

Il confronto teologico con la teologia dialettica del mondo protestante porta poi a parlare di una teologia della storia, intessa in diversi modi a seconda degli autori che noi qui avremmo in considerazione. Già prima la teologia dialettica si era scontrato con la teologia liberale (von Harnack), che privilegiava il metodo storico-critico.

Pannenberg —anche lui protestante— ad esempio la pensa diversamente. In una sua intervista concessa al Mondin spiega in quale modo il suo pensiero sia diverso per certi versi a quello di Barth:
«Ancor oggi mi sento legato a Barth sotto molti punti di vista. Il suo grande contributo è consistito nel fatto che egli ha sviluppato la teologia muovendo da Dio, muovendo dal concetto della sovranità di Dio. Sotto questo punto di vista mi sento ancora molto vicino a Barth sebbene io ritenga che il processo vada poi portato avanti in maniera completamente differente rispetto a quanto non abbia fatto Barth. Barth pensava di poter esprimere attraverso la sua teologia la sovranità di Dio in contrasto con il mondo terreno. Io, al contrario, penso che ciò non sia possibile. A mio parere un risultato del genere si può ottenere solo considerando il mondo come creazione di Dio» [B. Mondin, Dizionario dei teologi, Studio Domenicano, Bologna 1992, 452].

Pannenberg cerca di leggere in modo diverso il concetto di rivelazione, mentre in Barth si parla di autorivelazione, concetto fondato sulla rivelazione di Cristo, esclusa ogni ingerenza di cognizioni «naturali», extrateologiche ed extracristiane, in Pannenberg, la diretta autorivelazione di Dio non trova la sua giustificazione negli equivalenti biblici del termine «rivelare». Al posto di una autorivelazione diretta di Dio, oggettiva, il teologo propone l’idea di una autorivelazione indiretta, nello specchio del suo agire nella storia. La totalità del suo parlare e del suo agire, la storia operata da Iahvé, mostra indirettamente chi egli è. Soltanto tenendo presente quale significato riveste questo automanifestarsi indiretto di Dio per la totalità della storia della tradizione israelitica, apocalittica e cristiana primitiva, solo allora hanno il loro pieno valore oggettivo le affermazioni negative sulla mancanza o la recessione della concezione di una autorivelazione diretta [cfr. W. Pannenberg – R. Rendtorff – T. Rendtorff – U. Wilckens, Rivelazione come storia, Dehoniane, Bologna 1969, 39-57; studio sull’autore: Gibellini Rosino, Teologia e ragione. Itinerario e opera di Wolfhart Pannenberg, Queriniana, Brescia 1980].

Come ci ricorda Pannenberg, il concetto di rivelazione è collegato a quello di comunicazione. Parla dunque delle possibilità e delle aporie a cui può condurre la correlazione tra rivelazione e comunicazione, autorivelazione e autocomunicazione:

«Se si volesse considerare come rivelazione la autocomunicazione indiretta, propria di ogni singola azione di Dio, avremmo allora tante rivelazioni quante sono le azioni e gli avvenimenti nella natura e nella storia. Così però non si rende ragione del senso rigoroso di rivelazione intesa come autorivelazione di Dio. Quindi si può solo considerare quale rivelazione di Dio la totalità dell’agire di Dio, che nel caso in cui si tratta dell’unico Dio, corrisponde alla totalità di tutti gli avvenimenti» [W. Pannenberg – R. Rendtorff – T. Rendtorff – U. Wilckens, Rivelazione come storia, 53].

Ora dice Pannenberg:
«una singola azione di Dio, un singolo avvenimento può certo gettare luce indirettamente sul suo autore, ma non può essere piena rivelazione dell’unico Dio. Non possiamo abbracciare con lo sguardo la storia in tutto il suo complesso, come se fosse già conclusa. Anche se si desse questo caso, sembra che nella smisuratezza della storia universale e nel suo incessante fluire non sia possibile un solo avvenimento che abbia un significato assoluto, quale la fede cristiana trova nella sorte di Gesù Cristo» [cfr. W. Pannenberg – R. Rendtorff – T. Rendtorff – U. Wilckens, Rivelazione come storia, 57].

Nel dare una risposta a questi punti il teologo sviluppa le seguenti tesi:
(1) L’autorivelazione di Dio, secondo le testimonianze bibliche, non è avvenuta direttamente —ad esempio alla maniera di una teofania— ma indirettamente, attraverso le gesta storiche di Dio. (2) La rivelazione non ha luogo all’inizio, ma alla fine della storia rivelatrice. (3) A differenza di particolari apparizioni della divinità, la storia-rivelazione (Geschichtsoffenbarung) è aperta a quanti hanno occhi per vedere. Essa ha carattere universale. (4) La rivelazione universale della divinità di Dio non è ancora realizzata nella storia di Israele, ma soltanto nella sorte di Gesù di Nazareth, in quanto ivi si realizza anticipatamente la fine di tutti gli avvenimenti. (5) L’avvenimento di Cristo rivela la divinità del Dio d’Israele non come evento isolato, ma soltanto in quanto è parte della storia di Dio con Israele. (6) Nello sviluppo di concezioni extragiudaiche della rivelazione nelle chiese cristiane d’origine pagana, si esprime l’universalità dell’automanifestazione escatologica di Dio nella sorte di Gesù. (7) La parola è in rapporto con la rivelazione come predicazione (Vorhersage), come direttiva (Weisung) e come relazione (Bericht) [W. Pannenberg – R. Rendtorff – T. Rendtorff – U. Wilckens, Rivelazione come storia, 163-195].

Da parte cattolica Gustave Thils ha tentano non solo una teologia della storia ma addirittura una teologia delle realtà terrene; e a nostro giudizio, questo è stato il passo immediatamente anteriore che ha preceduto la riflessione teologica di questioni ancora più specifiche quali: la politica, la cultura, l’economia, l’ecologia, ecc., che sono temi che emergono nella teologia politica e nelle teologie del Terzo Mondo [cfr. Thils Gustave, Teologia delle realtà terrene, Paoline, Cuneo 1951 (Catholica, 13) - Originale: Théologie des réalités terrestres: Préludes, Desclée de Brouwer, 1946].

Le pagine del suo testo, dice Thils, «avranno unicamente per oggetto l’“incarnazione” dello spirituale cristiano» (Thils Gustave, Teologia delle realtà terrene,p. 6).

E non teme che la sua proposta sia vista come tropo orientata verso la terra in un’epoca in cui è messa in dubbio l’esistenza di Dio. «Dio —dirà— è senza dubbio la grande Realtà che deve prendere il cuore del cristiano... Ma il cristiano si trova egualmente in presenza del mondo» (p. 9). Di conseguenza la vita cristiana è «innanzi tutto teocentrica, ma non si disinteressa della terra» (p. 11).

Recependo il pensiero di Giacomo Maritain [in particolare Umanesimo integrale, Studium, Roma 1946] che propone la reintegrazione dei valori profani in una prospettiva cristiana, in virtù della diffusione e della incarnazione istituzionale d’un pensiero unitario, cioè di una concezione totale della vita e del mondo secondo Cristo: «Ridurre all’unità il dualismo mondo-Dio; ristabilire una nuova e sana armonia tra il Cristo e l’Umanità; restaurare l’unione della religione con la vita, tale sembra il significato primo e fondamentale dello sforzo oggi compiuto ai fini di una teologia delle realtà terrestri» (p. 31).

I cristiani che fanno astrazione dal mondo, aggrappandosi unicamente, esclusivamente alle realtà invisibili e celesti se sono malati “d’angelismo” e se fossero contemplativi autentici, non avremmo nulla da dire, poiché adempirebbero nel mondo ad un ufficio elevato e insostituibile: «Tutti questi cristiani non hanno abbastanza compreso il cristianesimo; non hanno compreso che la loro visione dualista del mondo è ingiustificabile tanto in teoria quanto in pratica. E questa lacuna non è il più piccolo peccato d’omissione che oggi si deve stigmatizzare» (p. 33).

Anche se il linguaggio dell’autore, come accadrà anche in GS, resta molto legato al linguaggio agostiniano sulle due città, terrena e celeste, lui invece ritiene che «Per comprendere il valore d’una teologia dogmatica delle realtà terrestri è indispensabile collocarsi nelle prospettive universali totali, cosmiche» (p. 46). È lo Spirito Santo che infonde al mondo l’unità e la carità in prefigurazione autentica dell’unità che regnerà nella città di Dio, quando Dio sará tutto in tutti. Infine Egli diffonde sentimenti di cattolicità e di universalità, perché la città terrena, benché temporale e transitoria, deve essere il preludio della Gerusalemme celeste. In somma la nostra azione temporale ha, in un certo senso, valore d’eternità» (p. 47).

Thils arriva dunque alla conclusione che «non esiste ancora una vera “teologia” delle realtà terrestri» (p. 53).

Per l’autore ogni creatura è oggetto della teologia dogmatica in quanto ha con Dio una relazione fattaci conoscere dalla rivelazione (cfr. p. 56). Per costituire una teologia delle realtà terrene, dunque, non basta che sia riconosciuto il rapporto di questa col cielo e con Dio; bisogna ancora che la rivelazione ci dica qualche cosa a loro riguardo (cfr. p. 60).

È questa sicuramente la principale difficoltà rilevata da Thils, per costruire una teologia delle realtà terrene: bisogna giustificare teologicamente il rapporto di queste cose concrete con il dato della rivelazione. Perciò l’autore ricorda che se c’è una teologia dell’uomo, che è anche una realtà intramondana, è possibile parlare di una teologia dei valori collegati a lui: «Se esiste una rivelazione formale riguardante l’uomo concreto, esiste una rivelazione formale implicita forse e oscura, ma reale, concernente tutti i valori terreni che hanno rapporto con lui. I prolungamenti omogenei della rivelazione, le applicazioni dirette e immediate, non le tolgono il suo carattere “formale”» (p. 68).

In conclusione, dice Thils, anche se possiamo solo abbozzare a grandi linee l’“immagine ideale” del mondo profano (cfr. p. 84), comunque «si può parlare con tutta verità della redenzione degli uomini, della redenzione delle intelligenze, della redenzione delle società e della cultura. Dal punto di vista del Cristo, l’opera della creazione, quella dell’elevazione e quella della redenzione è tanto universale quanto si può immaginare» (p. 87).

Il suo metodo parte della struttura “Spirito-Materia” che si trova nel NT sotto l’espressione “Spirito-Carne”, Πνευμα-Σάρξ. Questo è il punto di vista fondamentale che secondo l’autore governa tutta la sua esposizione teologica (p. 91).

L’altro problema che affronta l’autore è il pericolo di ridurre il profano alla visione cristiana, ma avverte che non si tratta semplicemente di sostituzioni: «Le realtà terrene debbono rimanere autenticamente “terrene”, ma perfezionate e disciplinate in dipendenza dei valori celesti» (p. 94).

La risposta la trova Thils nell’umanesimo integrale di Maritain, dove sacro e profano si possono integrare.

Giustamente ricorda l’autore che a partire di Kant la religione è stata confinata nella ragione pratica; in questo modo si incomincia a sentire con più forza la separazione tra ragione e fede, questa separazione che ha avuto anche un effetto nella teologia: «Si è costituita una teologia simile alla filosofia che è stata descritta: separata dai valori terreni» (p. 135).

Ora, mancare di “teologia dei valori terreni” —dice l’autore— è una grave lacuna: «una teologia, in-vero, deve essere una sapienza vera, e non solamente una scienza decifrabile da alcuni iniziati che si sono stabiliti fuori della vita quotidiana» (p. 137).

È chiaro che a un certo punto, anche Thils crede che sia la chiesa, «società visibile», uno strumento di progresso, non soltanto per gli individui, ma per le comunità umane nella loro ascesa verso il termine della loro perfezione. Essa, come Cristo e lo Spirito, esercita un influsso di irradiazione temporale: «Così, col pensiero e col culto, la chiesa aumenta la densità ontologica, la perfezione reale delle società umane, e fa di esse, per la gloria del Signore, un’immagine sempre più perfetta della Trinità, un preludio della Città di Dio, una prefigurazione della Gerusalemme celeste. Così vivono e così vivranno le città carnali» (p. 160).

Evidentemente nel caso anteriore il tema del pluralismo religioso non era ancora emerso. Attualmente l’affermazione della chiesa come mediazione dell’ideale delle realtà «celeste» entra in dialogo critico con la visione pluralista e multiculturale della società contemporanea.

Anche Thils si aspettava che la cultura divenisse, per l’opera dello Spirito e della chiesa, sempre più cristiana, anche se mette le virgolette alla parola «cristiana». Attualmente si può dire che una società possa diventare più «cristiana», ma ormai non è un fatto scontato. Il dialogo con le altre religioni è una esigenza del momento storico.

Molte cose potrebbero essere discutibili nella proposta di Thils. Il suo linguaggio ad esempio: tante volte ricorda la terminologia agostiniana sulla città di Dio (cfr. p. 175). O la sua visione dell’uomo come dominatore del mondo: «ogni volta che aumenta il suo potere sul mondo e il suo dominio sull’universo, l’uomo può dire a se stesso che egli collabora col Cristo nel tempo che partecipa all’attività terrena del Signore» (p. 180).

Ad ogni modo quello che ci interessa, resta il fatto che in seguito a questi dibattiti è venuta fuori una nuova elaborazione teologica più specificamente legata a fenomeni e situazioni sociali, storiche, politiche e culturale. Dalla fine degli anni 60’ emergono: la teologia politica, la teologia della liberazione, la teologia nera, la teologia india e dell’inculturazione, la teologia femminista, la teologia del terzo mondo, la teologia ecumenica, la teologia delle religioni.

Attualmente si parla di salvezza integrale, ciò vuol dire che la chiesa intende la sua missione come un’opera di salvezza aperta a tutti gli uomini e tutto l’uomo nella sua complessità: «La chiesa, immersa nella storia, non realizza una missione di salvezza se questa (intessa come liberazione integrale) non avviene anche nella storia». Possiamo dire dunque che l’attività missionaria abbraccia tutte le iniziative a favore della giustizia, della pace, e della solidarietà: «Non le considera aspetti o elementi periferici della sua missione, ma testimonianza essenziale della medesima. Queste realtà diventano così parte essenziale della costante progettualità pastorale delle chiese» [ODORICO Luciano, «Missione e pastorale», in DAL COVOLO Enrico – TRIACCA Achille (a cura di), La missione del redentore. Studi sull’enciclica missionaria di Giovanni Paolo II, Elle Di Ci, Torino 1992, 208].

Molte di queste nuove tematiche teologiche sono state accolte soprattutto Nell’Enciclica Evangelii Nuntiandi.



c) EVANGELII NUNTIANDI, UNA VISIONE INTEGRALE DELLA MISSIONE [INTRODUZIONE AL PENSIERO DI HOEKENDIJK]

Dieci anni dopo la promulgazione del decreto Ad Gentes, viene pubblicata l’Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi, forse il documento più importante del XX secolo. Di fatti continua ad essere il documento conciliare più citato. Il documento raccoglie tutto il materiale che i padri hanno elaborato per il Sinodo episcopale del 1974.

Per quello che riguarda il nostro interesse è da notare l'importante concretezza con cui il documento si apre al mondo.

Il documento è indirizzato «non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità» (n. 1). L’obiettivo del documento è quello di «rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo» (n. 2).

È sottolineata la centralità del Regno di Dio: «Solo il Regno di Dio è dunque assoluto e rende relativa ogni altra cosa» (n. 8). Nucleo e centro della Buona novella è la salvezza, che viene intesa come liberazione, di tutto ciò che opprime l’uomo e il peccato (n. 9). La centralità del Regno suppone dalla nostra parte una conversione radicale (n. 10). Lo stesso anno in cui era stata pubblicata l’EN Moltmann diceva: «La missione non deve essere compresa a partire dalla chiesa ma è la chiesa che va osservata alla luce della sua missione» [Moltmann Jürgen, La chiesa nella forza dello Spirito. Contributo per una ecclesiologia messianica, Queriniana, Brescia 1976, 25].

Nel n. 12 troviamo uno degli elementi che hanno configurato dopo la fine degli anni '60 la teologia del Terzo Mondo. Parlando dei segni evangelici della proclamazione evangelica, ricorda come «i piccoli, i poveri sono evangelizzati, diventano suoi discepoli [di Gesù], si riuniscono “nel suo nome” nella grande comunità di quelli che credono in lui». Qui ebbe inizio una visione rivoluzionaria della missione, i poveri non sono soltanto i destinatari dell’evangelizzazione, possono e devono essere i suoi protagonisti. La teologia della liberazione fará di loro il centro della sua concezione della missione. Possiamo qui ricordare le parole di J. Sobrino: «Pero el pobre no es sólo destinatario privilegiado dela evangelización, sino condición de posibilidad de la evangelización; la evangelización del pobre es constitutiva para el contenido de la misma evangelización» (però il povero non è soltanto destinatario priveligiato dell’evangelizzazione, ma condizione di possibilità dell’evangelizzazione; l’evangelizzazione del povero è costitutiva per il contenuto dell’evangelizzazione stessa) [cfr. SOBRINO Jon, Resurrección de la verdadera iglesia. Los pobres, lugar teológico de la eclesiología, Sal Terrae, Santander 1984, 307].

In questo documento non si parla di una chiesa trionfante o vittoriosa, ma di una chiesa che «resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova speranza di Gesù» (n. 15). Una chiesa in somma situata tra l’opacità della storia e lo splendore del Regno. Su questa magnifica visione della chiesa si possono vedere le interessanti intuizioni teologiche di Ch. Duquoc: «Solo con pudore si può parlare del Regno che viene: troppe miserie opprimono gli uomini perché un annuncio indiscreto venga ascoltato. La precarietà dell’istituzione ecclesiale la salva dall’insolenza alla quale potrebbero spingerla la certezza del proprio avvenire glorioso e il sentimento di essere già abitata dalla presenza gioiosa del Regno. In quest’opera, io ho cercato di pensare la chiesa nella sua situazione oscura, tra l’opacità della storia e la luce del regno» [DUQUOC Christian, “Credo la chiesa”: precarietà istituzionale e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 2001, 316].

L’evangelizzazione è intesa come «portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità, e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa» (n. 18). Qui noi troviamo i numeri che fanno perno al nostro corso:
«Strati dell'umanità che si trasformano: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» [n. 19].

Ritorna dunque con più forza quello che la GS n. 44 aveva chiamato la legge di ogni evangelizzazione, e cioè: «Occorre evangelizzare —non in maniera decorativa... ma in modo vitale...— la cultura e le culture dell’uomo», perché «la rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (n. 20).

Ma l’evangelizzazione, anche senza rinunciare alla sua visione trascendente, «non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello, che fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell'uomo. Per questo l'evangelizzazione comporta un messaggio esplicito, adattato alle diverse situazioni, costantemente attualizzato, sui diritti e sui doveri di ogni persona umana, sulla vita familiare..., sulla vita in comune nella società, sulla vita internazionale, la pace, la giustizia, lo sviluppo; un messaggio, particolarmente vigoroso nei nostri giorni, sulla liberazione» (n. 29).

Su questa scia risulta molto interessante la teologia missionaria dello Hoekendijk, secondo il quale non si può andare avanti facendo teologia solo con lo stile di uno “scriba”, ma molto di più bisogna farlo con quello di un sociologo e uno storico, dando grande importanza alle esigenze del momento storico in cui si vive, altrimenti si da una caricatura cadaverica della missione, della quale si potrà anche parlare con entusiasmo, man con la quale non si potrà lavorare [cfr. COFFELE Gianfranco, Johannes christiaan Hoekendijk. Da una teologia della missione ad una teologia missionaria, PUG, Roma 1976, 51].

Come chiarisce il documento, il richiamo per la liberazione era venuto principalmente dai «vescovi del Terzo Mondo» (n. 30).

Noi crediamo che il numero che meglio riassume la visione e il senso che daremmo al nostro corso sia il n. 31:

«Tra evangelizzazione e promozione umana —sviluppo, liberazione— ci sono, infatti, dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l'uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della Redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell'ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare. Legami dell'ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità: come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l'autentica crescita dell'uomo? Noi abbiamo voluto sottolineare questo ricordando che è impossibile accettare che “nell'evangelizzazione si possa o si debba trascurare l'importanza dei problemi, oggi così dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace nel mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal Vangelo sull'amore del prossimo sofferente e bisognoso”. Ebbene, le medesime voci che con zelo, intelligenza e coraggio hanno affrontato nel corso del citato Sinodo questo tema cruciale, hanno offerto, con nostra grande gioia, i principi illuminanti per cogliere la portata e il senso profondo della liberazione quale l'ha annunziata e realizzata Gesù di Nazareth, e quale la predica la Chiesa».

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