miércoles, 14 de enero de 2009

LEZIONE N. 10: POLITICA, ECONOMIA, ECOLOGIA...





(Martedí, 13.01.09)/Aula XXVII 3ª Ora: 10,20 – 11,05/4ª Ora: 11,10 – 11,55
MLC1006 Politica, economia, ecologia: forme di sviluppo e ruolo della Chiesa.

3. Dalla giustizia alla misericordia
Bibliografia: I. Ellacuría, Conversione della chiesa al regno di Dio. Per annunciarlo e realizzarlo nella storia, Queriniana, Brescia 1992; J. Sobrino, Il principio-misericordia. Bajar de la cruz a los pueblos crucificados, Sal Terrae, Santander 1992; J. Moltmann, La giustizia crea futuro, 59-64; J-F. Collange, Teologia dei diritti umani, Queriniana, Brescia 1991; Celam, V Conferencia General del CELAM (Aparecida, mayo 2007). Documento conclusivo, Celam/San Pablo/Paulinas, Bogotà 2007.

Sono tanti i testi biblici in cui si parla della misericordia e della giustizia: «Misericordia e fedeltà si sono abbracciate, giustizia e pace si sono baciate» (Salmo 85:11); «Giustizia e diritto formano la base del tuo trono; misericordia e fedeltà vanno innanzi al tuo volto» (Salmo 89:15). Anche durante la predicazione di Gesù se ne parla spesso, in particolare nella parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10,25ss.).

Tutti sappiamo che non è possibile parlare di pace, se prima non viene affrontato il tema della giustizia, il quale è legato quasi sempre al tema della povertà. Il papa Benedetto XVI nel suo ultimo messaggio alla giornata mondiale per la pace afferma chiaramente che il combattere la povertà è la via per costruire la pace con queste parole:

Nell’attuale mondo globale è sempre più evidente che si costruisce la pace solo se si assicura a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le distorsioni di sistemi ingiusti, infatti, prima o poi, presentano il conto a tutti. Solo la stoltezza può quindi indurre a costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado. La globalizzazione da sola non è capace di costruire la pace e, in molti casi, anzi crea divisioni e conflitti. Essa rivela piuttosto un bisogno: quello di essere orientata verso un obiettivo di profonda solidarietà che miri al bene di ognuno e di tutti (n. 14).


L’esercizio della giustizia accomuna a tutte le persone soggette a diritto, ma un cristiano è chiamato ad andare oltre, cioè fino all’esercizio della misericordia. Particolarmente toccante è il dialogo che troviamo in Matteo 19,16ss. Non si tratta solo di compiere ciò che stabilisce la legge, ma nella misericordia c’è un richiamo ad essere anche generosi nell’esercizio della libertà.

3.1 Giustizia, pace e sicurezza
La giustizia può essere intesa come virtù in riferimento alle persone individuali, ma può pure fare riferimento alle regole della convivenza umana.

Ora la giustizia non può stare senza in sostegno del diritto
[1], come anche il diritto, oltre al riferimento al bene comune e alla libertà della persona, resta vincolato alla giustizia. Oggi è normale collegare giustizia e diritto attraverso l’éthos dei diritti umani. Come afferma J-F. Collange, «le chiese e le teologie per lungo tempo non si sono quasi occupate dei diritti umani»[2]. Tuttavia oggi è più frequente trovare nella teologia e in diverse chiese argomenti riguardanti ai diritti umani e alla giustizia. L’ethos dei diritti umani implica una concezione di giustizia al cui centro si trova un rapporto di riconoscimento vicendevole.

Nella mentalità occidentale sono due le fonti che influiscono più fortemente nella concezione della giustizia: il pensiero greco, in particolare Platone e Aristotele e la tradizione biblica.

Per noi risulta molto più importante la tradizione biblica perché può essere applicata in ogni momento storico. Nell’AT c’è un’innegabile vicinanza di Dio ai poveri e ai deboli. Dio fa uscire il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto. L’esperienza originaria del popolo di Israele si riferisce ad un Dio che dà prova della sua opzione preferenziale per un popolo povero e ridotto in schiavitù. Il diritto dei poveri si fonda nel ricordo della liberazione operata da Dio, secondo quelle parole del Deuteronomio 24,17-18: «Non lederai il diritto del forestiero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto e te ne ha liberato il Signore tuo Dio; perciò ti prescrivo di fare questo». La critica profetica rinnova il ricordo dell’alleanza di Dio col suo popolo e rivendica sempre di nuovo i fondamenti che essa pone ai rapporti economici. Fra questi, ha un posto centrale il rapporto con i poveri e i deboli.

L’incarnazione di Gesù e la sua morte ci parlano della sua scelta preferenziale per i poveri. La venuta di Gesù diventa segno della liberazione definitiva dei poveri (Lc 4,18-19). La sua vita e la sua opera trovano il loro punto centrale nella liberazione che anticipa la salvezza definitiva promessa da Dio: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato e mi ha inviato a portare ai poveri il lieto annunzio, ad annunziare ai prigionieri la liberazione e il dono della vista ai ciechi; per liberare coloro che sono oppressi». La morte di Gesù in croce mostra le estreme conseguenze del rapporto di Dio con i poveri. Ciò che viene fatto ai più piccoli, viene fatto a Dio (Mt 25,31-46). La solidarietà con i più piccoli diventa criterio della comunione dell’uomo con Dio, diventa luogo dell’incontro con Dio.

Secondo questo, il rapporto con Dio non può essere demagogico o ideologicamente manipolato. La giustizia richiede correttezza delle condizioni di scambio e nelle regole giuridiche, partecipazione di tutti alla vita sociale ed equità della distribuzione dei beni, proprio come l’afferma il n. 69 della Gaudium et Spes: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli».

Nel rapporto fra libertà e uguaglianza, quella che viene chiamata etica sociale cristiana cerca un equilibrio, motivato dal comandamento cristiano dell’amore, all’interno dei tre ambiti di diritti umani della persona: l’ambito dei diritti di libertà, dei diritti civili e dei diritti sociali. Alla luce della sua concezione di persona, la libertà della persona è per essa inviolabile. Però, essa sa anche che come la libertà possa attuarsi soltanto se è garantita una libertà uguale per tutti. Perciò, un’individualizzazione antisociale della libertà deve essere evitata allo stesso modo di un sequestro collettivista della libertà attraverso una ipertrofia dell’uguaglianza.

Interessanti le parole della 1Cor 1,26ss.:

«Considerate la vostra chiamata, o fratelli: non sono molti tra voi i sapienti secondo la carne, non molti i potenti, non molti i nobili. Ma Dio ha scelto ciò che è stoltezza del mondo per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che è debolezza del mondo per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che è ignobile nel mondo e ciò che è disprezzato e ciò che è nulla per annientare le cose che sono, affinché nessuno possa gloriarsi davanti a Dio».

La via della pace giustizia o sicurezza?
Tanti paesi fanno la guerra e fomentano i conflitti bellici argomentando ragioni di sicurezza nazionale. Questo fenomeno lo abbiamo visto nei paesi latinoamericani dagli anni 30 fino agli anni 90. Lo vediamo nell’attualità nel conflitto tra Israele e Palestina.

Però bisogna ripetere che solo la giustizia è in grado di creare una pace duratura (shalom). Non si dà quindi alcun’altra via alla pace all’infuori di un agire ispirato alla giustizia e di una preoccupazione per la giustizia su scala mondiale. La giustizia a cui si sentono legati i cristiani è quella che salva, una giustizia che orienta verso la misericordia.

Non esiste pace dove regnano ingiustizia e violenza, anche se si è riusciti ad imporre la ‘pace del cimitero’, dove regna un ordine forzato. Quindi non è la pace che conduce alla giustizia, ma è la giustizia che porta alla pace. I sistemi fondati sull’ingiustizia possono essere mantenuti solo con la violenza.

È meglio parlare dunque di una pace globale, perché la pace in cui crediamo è quella fondata sull’incarnazione di Dio e quindi è una pace che riguarda: Dio, gli uomini e la natura.

Ma la pace costruita nella storia è un processo, non si può parlare di “possedere” la pace, come se fosse un qualcosa di materiale, meglio parlare di una via che deve essere percorsa insieme. Pace non è assenza di violenza, ma è la presenza costante di giustizia.

Il concetto cristiano di pace combina giustizia e misericordia. Non si deve temere di vincere la violenza con la non-violenza. Il superamento pacifico della violenza è possibile, ma può anche comportare il martirio. Ne abbiamo degli esempi: Gesù di Nazareth, Marthin Luther King, Gandhi, Mons. Romero, Mons. Gerardi, ecc.

3.2 Le Beatitudini e l’esercizio cristiano della giustizia
Se prendiamo in considerazione il messaggio del Papa, cioè che la via per la pace sia il combattere la povertà, allora noi vediamo che la cosa più logica è che la chiesa diventi non soltanto un’istituzione che “aiuta i poveri”, come tante altre, ma un’istituzione che diventa “chiesa dei poveri”, che soffre e sente la loro sofferenza come propria.

Noi crediamo che siano le beatitudini quelle che ci danno il senso più profondo di una chiesa dei poveri.

Le beatitudini non sono semplicemente delle affermazioni dichiarative, ma costituiscono un invito all’azione nel presente storico. Sentir dire Gesù: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati», significa partecipare anche noi alla promozione della giustizia nel nostro presente storico perché il nostro futuro abbia anche un senso. Lo stesso possiamo dire di quelle beatitudini che parlano della pace, dei poveri e della misericordia. Come ha rilevato il teologo Ignacio Ellacuría la beatitudine che ci riguarda ha un senso diverso da tutte le altre; mentre all’affamato si promette la sazietà e a chi piange la gioia, al povero non è promessa la ricchezza, ma il regno: un regno in cui certamente vi sarà pace, gioia, presenza di Dio, però un regno che non può essere descritto adeguatamente in termini di ricchezza storica. Nel regno vi sarà abbondanza per tutti, ma nessuno si potrà considerare ricco rispetto al povero ed in contrapposizione a lui. La pienezza dell’uomo non c’è soltanto nel futuro, ma si inizia a costruire nell’essere povero, nel soffrire attivamente è, pertanto, una condizione prescelta storicamente da Dio onde realizzare attraverso di essa la pienezza dell’uomo.

È importante capire che la povertà di cui parla Gesù non è la virtù della povertà che noi conosciamo, ma della povertà reale che lui ha davanti ai suoi occhi... La sua predicazione non è astratta e generica, universalmente univoca, ma pienamente storica e riferita alla situazione individuale e sociale predominante nella sua epoca. Il suo vangelo è, anzitutto, un vangelo a favore di coloro che nella spartizione del mondo hanno ricevuto la porzione peggiore.

E non si tratta unicamente del fatto che si pone dalla loro parte, li prende in simpatia e ne ha pietà, ma del fatto che li colloca al centro della salvezza e al primo posto nel regno.

Dire “poveri di spirito”, deve intendersi non nel senso di una visione spiritualistica della povertà storica, perciò forse è meglio parlare di “poveri con spirito”, poveri, cioè che assumono la loro povertà reale in tutta la sua immensa potenzialità umana e cristiana alla luce della prospettiva del regno. Non basta il solo fatto materiale della povertà, come non è sufficiente la sostituzione della povertà materiale con un’intenzionalità spirituale. Bisogna incarnare e storicizzare lo spirito di povertà e bisogna spiritualizzare e coscientizzare la carne reale della povertà.

Anche se l’espressione ad alcuni non piace, dire “chiesa dei poveri” non significa una chiesa escludente che vuole al suo interno soltanto dei miserabili ed esclude ogni altro membro “non povero”, ma significa l’incarnazione dell’istituzione nelle situazioni più concrete di sofferenze del mondo per restituire dignità a coloro che soffrono l’ingiustizia sociale. La “chiesa dei poveri” ha come missione elevare la povertà a principio di liberazione, vuole che i poveri capiscano che non sono soltanto i destinatari della missione ma i suoi principali protagonisti.

Viste nel loro complesso, le beatitudini possono essere considerate, in definitiva, come la carta di fondazione della Chiesa dei poveri. La chiesa dei poveri non può essere costruita al di fuori delle beatitudini. Al contrario, è essa che meglio può intenderle e realizzarle praticamente. Perciò è beata e per questo costituisce la via verso il regno.

3.3 Il principio-misericordia come programma di vita
La misericordia, secondo la parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10,25-37), non è semplicemente un sentimento religioso accanto agli altri. È l’atteggiamento che distingue il punto di vista di Gesù di quello dei suoi avversari e confratelli capi della religione ufficiale del suo tempo. La domanda con cui inizia la parabola non riguarda un elemento marginale della fede ma qualcosa di fondamentale: «Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?» (10,25). Come avverte Luca, con questa domanda volevano mettere alla prova Gesù.

La domanda fondamentale in questa parabola è: «chi è il mio prossimo?» (10,29). Sono tante le risposte tentate davanti al punto di domanda, ma il testo non spiega il ruolo che ha ogni personaggio. Comunque ci solo degli elementi molto precisi che non lasciano spazio al dubbio.

Per lo meno dovrebbe essere chiaro che tra i personaggi che hanno visto l’uomo percosso e spogliato (un sacerdote, un levita), l’unico che si è fermato è stato il Samaritano. È chiaro che Luca intende dire che il prossimo per quell’uomo è stato colui che si fermò ad aiutarlo. Gli altri forse avevano dei motivi per non fermarsi, ma il punto non è indagare nei motivi di perché non l’hanno aiutato, ma il fatto positivo, prossimo è colui che è concreto nell’aiutare coloro che soffrono. Quindi per colui che ha fatto la domanda, su chi sia il suo prossimo, non ci dovrebbero essere dei dubbi ante la risposta di Gesù.

Succede tante volte in autostrada quando c’è un incidente e qualcuno si ferma ad aiutare, tanti rallentano ma non si fermano, sono soltanto dei curiosi.

Se il Samaritano era anche lui un anonimo, a partire dal soccorso dato allo sconosciuto, allora non lo è più, lo sconosciuto diventa prossimo, ma prima bisogna prendere la decisione di aiutare, prossimo quindi si diventa, il diventare prossimo suppone la scelta libera di aiuto a coloro che sono oppressi e soffrono in questa storia. Questo è vero soprattutto se noi vediamo in colui che soffre l’immagine del Cristo che soffre nella storia. È chiaro allora che la prossimità impone una responsabilità.

Principio-misericordia
La prima cosa che chiama l’attenzione è perché non si parla soltanto di misericordia, ma invece si parla di principio-misericordia.

È stato il teologo J. Sobrino colui che ha parlato del principio-misericordia. Per lui, misericordia non è un semplice sentimento religioso, quale la compassione o le opere di misericordia, ecc. Sobrino l’intende come uno specifico amore che sta all’origine di un processo, però che rimane presente e attivo in esso, dandogli un determinato orizzonte e configura i diversi elementi del processo. Tale principio è quello che fondamenta l’azione di Dio e di Gesù e deve configurare anche la chiesa.

All’origine di tutto il processo sta l’azione amorosa di Dio «Ho visto l'oppressione del mio popolo che è in Egitto, ho udito il suo grido di fronte ai suoi oppressori, poiché conosco le sue angosce» (Esodo 3,7s.).

È nell’amore di Dio che noi troviamo l’origine della misericordia. Bisogna dire allora che quando parliamo della misericordia vogliamo dire: in primo luogo, che si tratta di un’azione, meglio ancora di una re-azione davanti alla sofferenza altrui, ma in un modo profondo che raggiunge il nostro interiore, il nostro cuore (le nostre viscere); in secondo luogo, quest’azione è motivata soltanto da tale sofferenza e non c’è scusa per non aiutar a colui che soffre.

Noi possiamo trovare nel mondo contemporaneo molta “anti-misericordia”: massacri, guerre, genocidi, ecc. La parabola del buon Samaritano parla chiaramente di un’azione violenta contro lo sconosciuto, quindi la misericordia è una risposta all’anti-misericordia che c’è nel mondo.

La misericordia è una forte forma d’amore, ed è anche molto rivoluzionaria. Tante volte noi credenti la nascondiamo con le nostre piccole opere di misericordia, con i nostri sentimenti di compassione, con un romanticismo con odore di elemosina e queste riduzioni della misericordia sono ben tollerate dall’anti-misericordia, ma quando noi parliamo della misericordia come principio strutturante della vita delle persone, allora l’anti-misericordia reagisce. Sembrerà una tesi esagerata ma Gesù è morto per mettere alla pratica la misericordia. Non è un caso che Gesù abbia pensato nel formulare una beatitudine a partire di essa: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7).

È chiaro però che la misericordia non è l’unica cosa che Gesù pratica, comunque è quello che sta all’origine e ciò che configura tutta la sua vita, la sua missione e, in fine, il suo destino.

La chiesa della misericordia
Se Gesù si è fatto uomo per amore, per misericordia, allora la chiesa serve al mondo per la costruzione del regno anche a partire della misericordia. Quindi è normale parlare di una “chiesa della misericordia”.

La misericordia deve essere il pathos che da forma e configura la chiesa.

Quali caratteristiche manifesta una chiesa della misericordia?
È estroversa, cioè aperta al mondo, de-centrata. Luogo della chiesa diventa il ferito sulla strada, e qui parliamo di qualunque ferito non soltanto i feriti intra-ecclesiali; luogo della chiesa è “l’altro”, l’alterità più radicale della sofferenza, principalmente quella dei popoli e culture, crudele e ingiusta. Se la chiesa non è presente in mezzo alle sofferenze della gente sarà qualunque altra cosa meno la chiesa di Cristo. Gesù cercava sempre quelli che erano come pecore senza pastore, i malati, gli abbandonati dai più forti.
È solidale. Ogni sofferenza merita di essere compresa ma la chiesa non può cadere in generalizzazioni, deve identificare quali sono le principali ferite di ogni momento storico e di ogni situazione socio-culturale. Non c’è dubbio ad esempio che in ogni chiesa particolare ci sono delle ferite concrete di quell’area sociale e culturale e a tutte la chiesa deve cercare di sanarle e guarirle. Tutti sappiamo che c’è una grande ferita che fa soffrire tutto il Terzo Mondo ed è quella della povertà provocata dagli interessi capitalistici e della globalizzazione dei mercati. La chiesa non può e non deve chiudere gli occhi davanti a tale sofferenza, e se li chiude certamente non è retta dal principio-misericordia.
La chiesa della misericordia è conseguente fino in fondo. Mentre la chiesa continua a vivere la carità in modo superficiale allora viene tollerata e anche aiutata dai governi, dai dittatori e da coloro che ostentano il potere nel mondo. Ma se una volta per tutte ha la pretesa non soltanto di praticare la carità in superficie, come “opere di carità”, ma di fare della carità il punto centrale della sua pastorale e della sua evangelizzazione allora la chiesa diventa nemica e pericolosa, e bisogna perseguitarla. Solo una chiesa della misericordia, “samaritana”, è pienamente evangelica e, dunque, pienamente credibile, la “vera chiesa”.
Ultimamente, di una chiesa della misericordia, ne ha parlato il documento di Aparecida del CELAM, al n. 26 si legge: «Illuminati da Cristo, la sofferenza, l’ingiustizia e la croce ci interpellano a vivere come la chiesa samaritana».
[1] Ius est objectum iustitiae, diceva Tommaso, cfr. T. D’Aquino, S. Th., II-II,57,1.
[2]
Cfr. J-F. Collange, Teologia dei diritti umani, Queriniana, Brescia 1991.

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